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Psycho punk e psycho dance: sono queste le definizioni più in voga quando si parla del trio di Liverpol. E se è vero che la radice di partenza è in fondo questa attitudine “punk stordito con la psichedelia”, è anche vero che si possono accollare al disco tutti gli altri supposti generi; perchè le sonorità proposte dai Clinic hanno dalla loro post punk e new wave, ma si tramutano poi in un flusso danzereccio oscillatorio e rumoroso, pronto ad entrarti nella testa e spaccartela a suon di organo e beats. Tutto questo è racchiuso nella partenza di “Country Mile”: sembra quasi che, trovato uno stile, i nostri Clinic si siano comodamente seduti sulla loro solita formula: “ti martello le orecchie, ti butto lì una bella base ritmica e ti ci canto sopra con quella voce che sembra un incrocio tra un Thom Yorke con la febbre del sabato sera e un maniaco”. E attenzione, il dire che la prima parte di questo album è il perfetto proseguimento del loro precendente lavoro non è ammettere che sia un lavoro scadente: il suo problema è quello di essere fin troppe volte chiuso in questo stereotipo. Si parla di prima parte forse un pò a sproposito, visto che il discorso fatto fino ad ora vale anche per alcune di quelle tracce che vanno oltre l’immaginaria linea di confine che divide il vecchio dal nuovo (ad esempio il garage alla Hives di W.D.Y.Y.B. che non brilla di certo), ma è certo che la differenza di suoni si percepisce univocamente quando si supera la quinta traccia e si entra nella calda chitarra di “Home”, che lascia da parte l’irruenza per immettere una sorta di atmosfere sbilenca (della quale già c’era traccia nel beat rallentato di “Anne”, che a ben vedere è il miglior pezzo del lavoro e quello che lascia buone speranze su un futuro dei Clinic), come se tutti gli strumenti, voce inclusa, fossero suonati da persone ubriache e annoiate. Tutte le sonorità del disco si fanno dolciastre e si imbastiscono di influenze che vanno dal romanticismo quasi jazzy da orchestrina a sonorità wave dondolanti intrise di balere popolari dettate da un intero paese in stato di ubriachezza, fino alla cacofonica “Fingers”, col suo giro ossessivo di pianoforte e la coda noise finale, degno di un viaggio lisergico degli anni ’70. Tirando le somme ci si trova davanti ad un disco confuso seppur bello, che si chiude in sè stesso sia quando rimane sulle vecchie coordinate sia quando propone nuove vie alla formula sonora; vie che – è bene dirlo – fanno la vera forza dell’album, ma che non lo avrebbero sostenuto se tutte le tracce fossero state suonate a quel modo: non si grida al miracolo, ma si resta all’ascolto.