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Indubbiamente questo lavoro degli Earlies è uno degli album dell’anno, ma prima ancora di raccontarvelo mi trovo costretto a segnalare un piccolo accorgimento che fa cambiare l’album da così a così. Esistono 2 versioni di These Were The Earlies, una più fredda e calcolata, che sembra danneggiata da un lavoro di postproduzione che ha smussato un po’ troppo gli angoli, l’altra… L’altra è veramente uno spettacolo. Un piacere per gli occhi e per la mente, che si perde nei territori psichedelici dipinti da questa specie di Sgt. Pepper Lonely Heart Club band un po’ folk un po’ indie.. Il sapiente gioco di voci (song for #3) che non cantano assieme, ma si fondono intrecciando cori e line portanti, il colore e la vita in ogni singolo strumento, siano essi i corni di Wayward Song, o le trombe di Devil’s Country, o ancora il piano di Dead Birds, conducono l’ascoltatore in un viaggio psichedelico in cui i paesaggi si dipingono per poi sciogliersi, per poi evaporare e ricostruirsi. . I nomi che vengono in mente sono tanto i moderni (Radio Dept, M83) quanto i grandi del passato (atmosfere Pink Floydiane in stile Beatlesiano) ma sempre di grandi e profondi gruppi si tratta. Il disco si apre con un’immaginaria alba (chiamata Morning Wonder) e, come nel cercare di acchiappare il bianconiglio che nel frattempo si fa seguire fin dentro la sua tana, One of Us is Dead apre le porte di un mondo fantastico e distorto, moderno (i suoni di batteria in pieno stile m83, i campionamenti, la sovrapposizione delle registrazioni e delle voci) ma ancestrale. Ci sono più anni 60 qui che in qualunque altro pseudo gruppetto si sia messo a spolverare i dischi dei genitori, siano essi i Bees o i piacevoli Dios. Gli earlies hanno una marcia in più su tutti: ed è quella di riuscire a fondere perfettamente qualunque tipo di suono, di strumento e infine qualsiasi tipo di canzone tra loro. Ci sono molti brani che sembrano nati in acustico, e, improvvisamente a metà ti accorgi che di sottofondo c’è un’interessantissima Drum machine, ma non fai in tempo a soffermatici che entra in scena un riff di flauto (tutto ciò in 25 Pieces). Oppure, al perfetto contrario, si parte da una base quasi in stile Air, ma neanche fanno in tempo a materializzarsi in che una chitarra country cattura l’attenzione, per poi cedere il passo a il synth, e a un cantato corale semi Gospel (Morning wonder). Insomma dentro c’è molto più di quello che possiamo immaginare, e molto più di quello che realmente che ascoltiamo. Questo qua è uno di quei rari dischi che sembra trascendere dalla pura musica per creare immagini, idee, sensazioni ed emozioni. Focus On su The Devil’s country, introdotta da una danza quasi tribale si rivela essere uno Strawberry Fields del deserto, brullo e stepposo, acido e lampeggiante nel suo chorus out of tune. Menzione speciale, infine, per Wayward song che, oltre ad essere un GIOIELLO (scitto tutto maiuscolo), costringe a nascondersi sotto una mattonella ad ogni mania pseudo hippie o atteggiamenti da santone dei Vari DevendrI BanahrtI che girano adesso, sintetizzando lo spirito Earlies, una canzone malinconia, con corni, violoncelli, batterie, elettroniche sintetizzatori, e computer. E soprattutto uno special in cui tutto sembra essere un’esplosione di forme e colori. Per me è il disco dell’anno.