Moltheni – Splendore Terrore

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L’anno per l’indie italiano comincia nel migliore dei modi: il gradito e atteso ritorno di Moltheni con Splendore Terrore, in uscita per La Tempesta. Un album che all’inizio può spiazzare, con i suoni caldi e acustici, ma basta solo soffermarsi a pensare, lasciandosi ammaliare dalle note, e ci si rende subito conto che questa altro non è che la migliore delle evoluzioni che Moltheni poteva donarci. Dopo 2 album (Natura in replay e Fiducia nel nulla migliore) energici e dinamici, con le chitarre in primo piano. Splendore Terrore si affida alla delicatezza dei delay e dei riverberi delle chitarre, ai tappeti del wurlitz con quel suono caldo e vintage, a una batteria che piuttosto che eccedere in fill e stacchi si inserisce delicatamente mantendo il tempo con basi semplici e minimali.
Ma la vera magia di questo disco non sono i suoni in sè, ma soprattutto i vuoti creati dai suoni, le attese, i momenti in cui i silenzi fanno lentamente cadere a terra le pareti della stanza come carte da gioco, e nel momento in cui si aprono gli spazi, nel momento i cui sembra di essere in un vasto orizzonte le note e le parole di Moltheni e la sua band si fanno compagne, riaffiorando lentamente e galleggiando in strumentali e lunghe code, diventando tutt’uno il paesaggio da loro creato.
E’ forse l’emozione che evoca quella musica o la musica che evoca quell’emozione? Difficile dirlo, ma come le lande sonore che creano i Mùm con la loro delicatezza nascono e svaniscono in un momento, così basta la semplice chitarra di Bue a ritagliare un attimo nel tempo e a riempirlo di sensazioni e colori. Personalmente questa nuova forma musicale mi ha stregato. L’album è accogliente, amichevole, da la stessa sensazione di tornare da adulti nella vecchia camera che si aveva da bambini, e mettersi seduti sul letto a pensare e pensare. Ricorda la luce calda e familiare di una abat-jour, ha lo stesso calore di un lungo abbraccio. E’ qualcosa di “vicino” e “conosciuto”.
Capitolo a parte per i testi… Il livello compositivo rimane sempre ermetico, ma il significato insito è più profondo. Stupisce come liriche come queste possano sembrare così vicine e farsi sentire così tanto sebbene racchiuse in frasi misteriose, frasi che a leggerle sul foglio paiono oscure ma a sentirle acquistano un nuovo aspetto, come il flashback di un ricordo, o le sensazioni che evoca la memoria in un deja-vu. Bellissima Fiori di Carne, struggente come poche altre composizioni Moltheni ha saputo fare, toccante il finale affidato a Suprema (solo voce e piano), profonda la title track con la sua coda intensa e tagliente. Sono certo che ognuno può trovare un attimo della propria vita o il ricordo di un’esperienza in ogni traccia. Personalmente sono stato piacevolmente travolto da La ragazza dai denti strani, un motivo acustico molto semplice in cui si riflettono quotidiani momenti di vita, come polaroid di attimi consequenziali che pian piano sbiadiscono perdendo colore. Non lasciate che questo disco passi inosservato, perché merita, merita veramente.