Martyn, John – Solid Air

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Immaginando un viaggio a ritroso negli anni, più precisamente negli anni 70, scopriremmo come questi abbiano fornito le forme più affascinanti di un rock dai canoni sempre più sfuggenti, come si siano successivamente riproposti dando vita a geniali sfaccettature riconducibili, nel caso del rock ‘n’ roll, quasi sempre alle vicende artistiche dei soliti noti, ovvero Beatles, Kinks, Who e Rolling Stones, mentre sul fronte del folk rock i nomi di Donovan, Bert Jansh, John Fahey, Bob Dylan e Neil Young si proponevano come punti centrali. L’Inghilterra conobbe inoltre una interessante scena underground di cantautori che faticarono l’ascesa alla popolarità, in qualche caso beffardo avvenuta solo dopo la morte – vedi Nick Drake –. In altri casi, come quello dello scozzese John Martyn, è stata la storia a distanza di tempo a raccontarci che in mezzo ai soliti capolavori si nascondevano altre gemme di egual valore. Il folk di Martyn parte dai canoni comuni ad altri cantautori, per poi contaminarsi con le suggestioni più disparate ed impensabili, dal jazz alla psichedelia, facendo sfoggio di una tecnica chitarristica invidiabile e di uno stile vocale senz’altro inconsueto. “Solid Air” è il concentrato di tutta l’arte espressa da John Martyn negli anni, qui alla sua sesta prova nonostante la giovane età – appena ventiquattrenne – . Trovano spazio infatti in questo suo disco del 1973 squisiti scenari lunari accompagnati dalla vigorosa chitarra acustica di Martyn, in grado di disegnare coordinate stilistiche difficili da individuare altrove. E se la title track – dedicata all’amico Nick Drake – è un raro esempio di folk jazzato dalla notevole carica emotiva, perle come “Dont’ want to Know” e “I’d rather be the devil” sembrano delineare un mondo folk nuovo, stupendamente ampliato da inquietanti interventi di viola, organo, percussioni, straordinari effetti come i ritardi, che cercano di far volare le direzioni in altri universi sconosciuti ai più, caratterizzati da tonalità scure ma terribilmente accattivanti. Non manca di emozionare la sognante “Go down easy”, tutta incentrata sulla voce e la chitarra di Martyn, mentre il jazz rock di “Dreams by the sea” risolleva gli animi in un concentrato di groove molto particolare, evidenziato da un piano elettrico indiavolato e da un solo di sax notevole. Su “May you never” si torna su un folk più canonico ma non per questo meno emozionante, dove ancora una volta John Martyn mette in rilievo la sua invidiabile tecnica sulla chitarra acustica. La magia che è possibile ammirare in “The man in the station” è la prova di classe del suo autore, uno dei geni incompresi dei suoi anni, una linea vocale trascinante ne traghetta l’incedere su tappeti pianistici d’effetto.
“Solid air” è uno dei grandi dischi degli anni 70, un’opera che mette in luce le infinite possibilità di contaminazione che è possibile attuare in un genere solo sulla carta poco incline a sperimentazioni come il folk rock. Un autore unico, difficile da imitare, il cui talento è impossibile da riscontrare in altri artisti, la cui arte probabilmente non avrà modo di brillare ancora come in questo disco, che rimane a mio modesto parere, la sua vetta artistica.