Bel concerto quello di Feist, peccato per le innumerevoli, banali sbavature dell’artista stessa, ma procediamo con ordine. Il circolo degli artisti si riempie lentamente di stranieri, il ponte del 25 aprile ha rapito per brevi gite la maggior parte degli italiani, ma i pochi che sono rimasti nella capitale sono qui presenti per un concerto che si preannuncia ancor più elegante e stiloso del disco stesso. Già vedendo l’attrezzatura sul palco si respira un sound caldo e particolare, il basso non è presente tra i treppiedi, mentre sparsi tra la tastiera e la batteria ci sono un’infinità di sonaglini, tamburelli, maracas, ovetti (di varia misura e con diversi tipi di sabbia all’interno) piccoli bonghi… Una sessione ritmica che sarà parte portante del concerto. Apre le danze un certo J. Harris, un Damien Rice qualunque con l’aria da Damien rice qualunque che intrattiene per circa 40 minuti con delle canzoni stile Damien Rice qualunque… O meglio sarebbe dire annoia. Le composizioni stancano per la loro banalità spiazzante, giri di accordi inflazionati, la solita malinconia/tristezza da poeta metropolitano che riesce ad esprimersi solo con l’acustica, un pezzo con l’armonica giusto per spezzare e tanto fingerpicking per ovviare alla mancanza di band. Sentita una canzone sentite tutte, di questo ne eravamo tutti convinti tranne lo stesso Harris, che con testarda pazienza e profonda convinzione nelle sue canzoni – in questo c’era da ammirarlo- ha portato a termine il suo set nonostante metà del pubblico stesse ampiamente chiacchierando dei fatti suoi (e l’altra metà sbadigliando di fronte a lui). Unica nota positiva di questo menestrello americano il fatto che era –come già detto- solo lui con l’acustica: il cambio palco è stato velocissimo. Sale Feist ed è una piccola sorpresa il sol vederla… Il pubblico è un po’ incredulo.. ci si aspettava una donna un po’ stangona, con quel fascino francese subdolo e ammaliatore e il look curato. Feist è in realtà un donnino. Minuta e bassa, esile e –a vederla- fragile. E soprattutto senza tette (che c’entra direte voi? E una nota che ho dovuto mettere per tutti quelli con cui ho parlato in questi giorni che, di risposta al mio “ieri ho visto il concerto di Feist…”
rispondevano”e com’era? “ – “mah, un bello show, i suoni”- “no, non hai capito, il com’era era riferito a Feist e basta”). Inizio molto cool con percussioni che creano il ritmo sinuoso di When i was a Young girl, Feist imbraccia la chitarra (che sembra immensa rispetto a lei) e con un fare pj Harvey-iano canta e si dedica all’assolo facendo svolazzare a destra e sinistra la frangia. Ad accompagnarla ci sono 3 persone: un tastierista con hammond, un batterista con una batteria jazz senza tom e “l’uomo tuttofare”. Ora io non mi ricordo il nome dell’”uomo tuttofare” ma i maggiori elogi del concerto vanno a lui, senza la sua cura nei suoni e nei ritmi sarebbe stato tutto di sicuro più piatto. L”uomo tuttofare” è stato l’asso nella manica del concerto, il jolly strumentale che si è diviso tra borghi, tamburi e tamburelli, maracas, xilofono, diamonica a bocca, trombone, e ha stupito tutti suonando una strana “scatola a tasti” con un effetto percussivo alquanto singolare. E’ anche per questo che il concerto è stato magnetico. Molti sono venuti solamente per sentire One Evening e Feist, com’è giusto che sia, li ha fatti penare per questo pezzo fino alla fine, ponendolo come bis finale della serata. Ma a saziare la sete che piano piano saliva, molti brani da Let It Die (Gate keeper,
Mushaboom, Let it Die l’allegra Tout doucement), qualche pezzo dall’introvabile Montreal (primo disco di lei), alcuni brani in cui figura come collaboratrice (ha fatto un pezzo dei kings of Convenience e uno di Gonzales, l’artista che le ha permesso per primo di venire in Italia) e altri che potremmo dire “classici”. Pezzi che personalmente non mi suonavano totalmente sconosciuti, ma non saprei identificarli. Una presentazione da parte sua avrebbe chiarito molti dubbi. Da ricordare un intermezzo di 3 brani in cui Feist resta sola sul palco, e riesce a crearsi un sound fantastico con l’aiuto di un microfono aggiuntivo e una loopstation, incastrando brevi arpeggi di chitarra e sospiri languidi, giocandoci sopra ora con vocalizzi ora con assoli. Indubbiamente il momento più interessante del live. Unico neo della serata la distrazione, una distrazione che non ti aspetti da un’artista che è in tour da 5 anni (un po’ per conto suo un po’ come ospite), una distrazione che porta il più delle volte ad accordare la chitarra mentre suona, o a cambiare il selettore dei magneti durante il pezzo, passando così da suoni alti a suoni cupi e caldi all’interno dello stesso verso. Distrazione che culmina con un movimento sbagliato che fa slacciare la parte superiore della tracolla, facendo piombare la chitarra con un movimento rotatorio in stile mannaia a terra dal lato delle meccaniche (o sofferto per Feist –proprietaria della chitarra- e per la chitarra stessa).Certo evidenziare questi nei è un po’ da pignoli, ma sono cose che alla fine influiscono sull’atmosfera che è stata così spezzata più volte, e altrettante ricostruita dalla stessa Feist e, ovviamente, dall’”l’uomo tuttofare” che, a dispetto suo, è stato sempre puntuale e preciso come un orologio svizzero passando velocemente dalla tromba alla diamonica senza perdere una battuta di tempo, con una serietà distaccata da vero professionista. Ci mancava solo che si lanciava, con un balzo a braccio proteso in tipico stile indiana Jones, verso la chitarra salvandola dallo schianto a terra e, almeno da parte mia, vi giuro che sarebbe partita una standing ovation. Concludo eleggendo “Fenomeno Della serata” lo spettatore che, quando Feist ha detto “Il mio italiano è migliorato in questi giorni, ditemi una frase qualunque e io ve la tradurro” ha ironicamente ribattuto “Te porterei a casa mia!”