Architecture in Helsinki: Architettura a Roma…

Certo… Dopo il pienone della sera precedente con i Kaiser chiefs era davvero improbabile ritrovare il locale colmo per gli Architecture in Helsinki. Siamo in pochi, molto pochi se si conta che buona parte dei presenti è della crew del gruppo. E forse è anche per questo che si respira un'aria quasi molto “giovanile” quasi liceale.Gli Architecture In Helsinki sono infatti molto giovani ed ingenui se vogliamo, ed è questo il loro principale pregio che si riflette anche nelle composizioni. Delicate pop song da 3-4 minuti coinvolgenti nella loro semplicità, ricche di suoni (come mostreranno nel live) ma semplici negli accordi. In un certo senso è come un gioiello in miniatura, una serie di piccole luccianti perle che, messe in fila, hanno dato vita prima all'esordio Finger Crossed (poco fortunato ma molto più interessante) e in seguito all'album cui il tour fa da supporto: In Case We Die (troppo fortunato vista la poca consistenza rispetto al predecessore. “Pitchfork ci colpa”, bisognerebbe dire) . Niente gruppo spalla. e del resto dove sarebbe potuto stare? Lo stage e pieno di chitarre, bassi, tastiere e synth, acustiche e una serie di ottoni che splendono sotto la luce dei riflettori. E in più ci sono loro stessi, che sono sforano il classico pop-group da 4-5 componenti essendo molto più numerosi, in 8 per la precisione… “un po' come i Broken social scene” verrebbe da dire (frase che si può ripetere anche per parte delle loro ballate); salgono sul palco una prima volta per accordarsi gli strumenti e nessuno si accorge di loro. già, perchè è un mistero il volto di questi AIH; io stesso sono stato poco prima dell'inizio a parlare con una ragazza presso il banco dei loro cd (non ho trovato Finger Crossed porca pupazza!), ragazza che poi ho scoprto essere una delle voci femminili principali. Si sa molto poco su lla band, basti pensare che la maggior parte della gente presente è convinta che gli AIH vengano proprio da Helsinki (“chissà come sono questi islandesi”, ho sentito spesso dire), senza sapere che in realtà la loro città natale è agli antipodi dell'Islanda, in una parte sperduta dell'australia. Ma poco importa se non li conosciamo di persona, fa sempre piacere sapere che un gruppo come loro, nato quasi per scherzo, sia ora in tour in europa e, prossimamente, anche in america forte di 2 lavori che si stanno facendo pian piano sempre più strada tra le webzine e i blog di musica indie. Ma veniamo al live, un live tutto d'un fiato, con pochissime pause tra un brano e l'altro (un po' come I Broken social scene… verrebbe da dire…) e, anzi, con la voglia di unire là dove possible un pezzo al seguente, improvvisando piccole jam o divagazioni psichedeliche. Sebbene sia già da tempo in giro il loro singolo apripista, Do The Whirlwind, passato anche su MTV al solito orario nottambulo, e sebbene la stampa (sia su carta che su web) ha trattato molto bene In Case We Die il pubblico è molto più preparato su Finger Crossed. Non si arriva certo al richiedere canzoni, ma i volti dei presenti si fanno soddisfatti al suono di One Heavy February e alla cavalcata di Souvenirs più che a Wishbone(per quantosia stato il pezzo più trascinante di ICWD, assieme alla sopra citata Do The Whirlwind, posta come bis conclusivo). In particolare è una gioia scoprire come tutti sono preparati per aiutare la band in When the Owls go.(“Owls go!”) Il confronto dal vivo rende ancora più nette le differenze tra I 2 lavori. Se nel secondo si vede più una perfezione tecnico-stilistica tipica di chi ha compiuto “il salto di qualità”, di chi sa che “è atteso” e piuttosto che rischiare preferisce proporre un lavoro piacione per fare tutti contenti, il primo gode di una spontaneità che ha più presa sul pubblico, le canzoni conservano quell'aria fanciulla da “bozzetto”, si mantengono come improvvisazioni a cui ogni membro del gruppo non si assenta dal partecipare, perchè sa che non deve attenersi ad uno “schema” o ad una partitura, ma può tranquillamente inserirsi, anche con il semplice suono di un triangolo. E Così se da un lato si balla al suono di un synth pop piacevole come pochi ma sentito come troppi, dall'altro si è piacevolmente impressionati dalla danza di To and Fro, con una ritmica che coinvolge lo schioccare delle dita, il battere le mani sulle ginocchia e il classico rumore da “tappo di champagne” fatto con il ditto in bocca (E questo I Broken social scene non lo fanno!). tra i 2 spaccati c'è infine la via di mezzo, i pezzi in cui il gruppo esce più fuori come ensemble di musicisti, brani con un'attitudine spiccatamente pop folk alla Alfie. Ed è proprio qui che ci si emoziona nel emoziona vederli, ognuno al suo strumento, (chi all'acustica, chi ad un'elettrica di fortuna, molti alle tastiere e -in mancanza di strumenti- c'è sempre un vasto assortimento di percussioni tamburelli, triangoli, il clasico “ovetto”), conquistati da una melodia che sembra nascere quasi per volontà propria, animata dalla gioia e dal divertimento che loro stessi provano nel suonarla. Tra tutti i componenti bisogna necessariamente ricordare Sam Perry , il tuttofare del gruppo, l'unico che veramente ha suonato qualsiasi cosa avesse a disposizione, e Isobel Knowles (almeno credo sia lei, valli a riconoscere…), che alternandosi tra il basso e la tastiera e stata per la maggior parte del concerto con gli occhi socchiusi e un'aria sognante, lasciando ondeggiare a tempo di musica la frangetta che le incorniciava il volto. Speriamo che l'industria discografica non li rovini, e ce li lasci sempre così: delicati e senza voglia di crescere, spontanei e amichevoli come si propongono anche a fine conerto a chi vuole conoscerli.