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C’è un posto a Genova che si chiama Boccadasse che sembra fuori dal tempo: in mezzo alla città sempre più in bilico tra il moderno e la tradizione una spiaggetta piena di barche di pescatori ha come cornice un piccolo borgo nella città e per arrivarci si percorrono le celebri creuze.
Spostandosi nello spazio e nel tempo vediamo una macchina che percorre una strada verso la fine degli anni ’80, al volante c’è mio padre e io sul sedile di fianco mentre nel mangianastri gira una cassetta in dialetto stretto genovese. Ci sono tante cose per cui devo essere grato a mio padre e una di queste è sicuramente quella di avermi trasmesso l’amore per Fabrizio De Andrè e per questo ‘Creuza de mà’.
Ce n’è tanti di bei dischi italiani ma questo è uno dei capolavori della musica mondiale, nonostante la difficoltà del linguaggio. A parte la celebre e bellissima titletrack, abbiamo brani come la struggente “Sidun”, attualissima nel suo pianto materno, oppure le dolcissime prostitute di “Jamin’a” e “A dumenega”, vere e proprie protagoniste della musica di De Andrè. Le sette canzoni vanno a comporre un capolavoro di suoni, con quei fantastici intrecci tra strumenti antichi e moderni che vanno a formare un disco sempre attuale e innovativo; ma anche i testi come in tutta l’opera di De Andrè la fanno da padrone e riescono a portare un po’ di Genova anche nel cuore di chi questa città non l’ha mai vista.
Un album che ancora oggi mi emoziona così come riesce a fare da vent’anni a questa parte, un disco pieno di suoni, odori, colore, gioia e malinconia, un tesoro musicale con davvero pochi eguali nella storia.