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Attesi al varco; tre anni dopo quello che a parere di chi scrive può essere considerato una sorta di ‘White album’ nero (ma poi perché soltanto nero? ‘Speakerboxx/The Love Below’ era graziato dal dono delle lingue…) e dopo una serie inarrestabile di rumours relativi ad un possibile scioglimento e svariati rinvii, ci si avvicina ad ‘Idlewild’ con la gola riarsa da tanta attesa e pericolose aspettative. Come avrebbero mai potuto superarsi o anche solo ripetersi i due ragazzi di Atlanta (nonostante ci abbiano abituato a standard qualitativi di indiscussa eccellenza)?
L’album nasce come colonna sonora “ideale” di un film omonimo ambientato negli anni ’30 che vede la coppia protagonista, ispirata dalla sua trama e dalle sue atmosfere (o se vi piace, immaginate la musica come ispirazione delle stesse) rappresentandone più un appendice che il commento musicale. Se già il doppio album precedente non lesinava certo influenze provenienti dalle più disparate fonti sonore americane dal ’20 in avanti, sapientemente aggiornate ai beat ad alta fedeltà e ai tempi dispari del breakbeat oltre che al torrenziale delirio vocale dei due, ‘Idlewild’ mette tutto in chiaro fin dalla sua pregiata veste grafica: Andrè è chino su un vecchio piano, rapito. Big Boy è uno sfacciato crooner, un po’ Nat King Cole e un po’ pappone, il tutto virato seppia.
Il definitivo congedo alle ibridazioni hip hop e all’hi-tech funk salutati per approdare a lidi vaudeville, piano jazz, gospel-blues? Niente di più lontano dall’uno-due iniziale di “Mighty O” e “Peaches” che recuperano la comunicatività diretta di “Stankonia” grazie ad un approccio particolarmente pop, rifinito ma senza fronzoli. “Idlewild blue” ha un riff e un armonica che arrivano dritti dritti dalla più classica e ferina musica del diavolo, swinga che è un piacere e ci fa cogliere la naturalezza del tocco produttivo di questi due Re Mida prima che il lascivo funky/soul di “N2U” non ci riporti alla mente languori Princiani (e che suoni).
Il disco dà la precisa idea di crescere con gli ascolti; ti aspetti la scoccata vincente, il colpo ad effetto perché oramai l’altissima qualità media la dai per scontata e poi ti fregano al sesto, al settimo ascolto, quando scopri che l’album ha una formidabile tenuta d’insieme e ancora diverte, appassiona. Però “Morris Brown” merita una citazione e non solo perché occorre essere totalmente pazzi per sceglierlo come singolo per un disco che si prevede milionario: una base di percussioni tra il bandistico e il tribale, improvvisi cori doo-wop ad accompagnare Big Boy nel suo flow e poi un micidiale ritornello che l’ospite Sleepy Brown manda in orbita grazie ad una melodia degna di Marvin Gaye. “Chronometrophobia” ti sorprende con una malinconia improvvisa e poco più in là “Hollywood divorce” mostra le ferite che bruciano quando i riflettori si spengono e il trucco mostra crepe impietose: la voce filtrata di Andrè insegue Sinatra, la melodia in qualche modo riporta ai moderni croonerismi del più ispirato Richard Hawley prima che il dinoccolato passo di Snoop Doggy Dog serva il poker. E’ in pezzi come questo, è nella qualità delle ospitate, del dettaglio e del contesto che gli Outkast ci appaiono come perfetti direttori di una orchestra allargata all’intero pianeta. Come si spiega altrimenti l’apparizione della cometa “Call the law” dove i nostri neppure si azzardano a toccare il microfono, delegando il tutto a una splendida Janelle Monae che con un piglio da Aretha Franklin conduce lo smilzo beat del pezzo su e giù lungo evoluzioni vocali simili a montagne russe, stop e ripartenze, pieni e semivuoti; di una bellezza clamorosa, impossibile stare fermi con le mani e con la mente.
A costo di risultare monotoni occorre parlare di un’altra prova superata a pieni voti. Gli Outkast sono uno dei pochi gruppi che ancora ti fanno sorridere per l’accostamento inatteso e per quella strana forma di empatia che si viene a creare, senza mai ricorrere a sguiatezze assortite, volgarità o colpi bassi. Sono il miglior vessillo che l’hip hop abbia mai potuto sfoggiare per emanciparsi dai propri limiti e il più irresistibile pretesto per avvicinare a questo mondo chi lo ha sempre osservato con pregiudizio. Dopo ‘Idlewild’ non ci sono scuse che reggano.