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Può una band che è durata sette anni e ha prodotto due album più un 10 pollici risultare padre un nuovo modo di intendere la musica?
Si, è la risposta è ‘Spiderland’: l’irruenza dell’hardcore che si avvolge in sè stessa, che si riempe di tensione di spigoli e angoli; che si ritorce inquieta (come le “foglie vive” di Montale); che narra storie senza un inzio e una fine, ma solo un immenso e dilatato centro che esplode si ricrea e implode per poi ricominciare da capo. Potenza, maliconia e rancore. Questa è la musica degli Slint: semplice idea del rock. Frammentata ed evanescente. La rabbia è sempre incompiuta, c’è la tenerezza ma non il gesto, c’è la tensione. E così avanti fino alla fine, come l’attesa del fantomatico Godot che mai arriverà.
Dal punto di vista dell’ascoltatore questo lavoro è qualcosa di disarmante: recitati (a questo proposito il testo di Washer fa commuovere: “please listen to me, don’t let go, don’t let this desperate moonlight leave me with your empty pillow, promise me the sun will rise again”) coperti da armonici e controtempi, muri sonori subito distrutti trascesi in sincopi, tappeti jazzati dissonanti, minimalismo e malinconia.
Un capolavoro: un manifesto nel quale l’unico messaggio è “I’m trying to find my way home.”