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Il primo disco, ‘Get Lifted’, era pur sempre un debutto, giusto? E poi si, c’era un grosso progetto alle spalle, budget infinito, hotels a sette stelle, pedigree e collaborazioni di quelle a cui è difficile dire di no pena una testa di cavallo tra le trapunte. Bellissimo, da spellarsi le mani e rimanerne senza fiato, ma eravamo pronti ad impallinarne un seguito magari troppo melenso, esageratamente piacione a favorire l’ascesa di John come prossima icona da poster, e tanti saluti alla benefica missione tesa a ricondurre il soul ai propri mirabolanti fasti di un abbondante trentennio fa.
‘Once Again’ mette a tacere i dubbi iperbolici e le diffidenze, li seda con una overdose di cuore e pathos e delizia il palato con classe magistrale, per un lotto di canzoni che sfidano le altre “leggende”, coeve (poche, a dire il vero…) e lontane nel tempo, con coraggio e cognizione di causa, in virtù di un impasto sonoro che pur memore delle auree miniere Atlantic, Stax e Motown e non disperdendone il naturale calore, guarda in avanti, alla tecnologia con l’anima. E se proprio dovessimo andare a trovargli una parentela diretta nei decenni trascorsi, è a Stevie Wonder che ci piacerebbe affiancarlo, per la capacità di raccontare a cuore aperto l’amor sacro e quello profano, gospel&soul, scrivere canzoni compiute e dirette come frecce appuntite ma sempre screziate dalla curiosità di uno spirito alla ricerca del suono perfetto. Singoli killer come “Save Room” e “Stereo”, che sanno accarezzare e farsi tese all’improvviso con bassi rapiti dal groove, momenti di raccoglimento come “Show me”, sussurrata come una preghiera prima del sonno, l’invito alle pubbliche effusioni di “We just don’t care”, numero pop di rara orecchiabilità e buon gusto.
Lo stato di grazia che lo pervade consente a John di andare a cogliere applausi anche quando si avventura nella torch song e nel vaudeville e pesca dal fiume della memoria un brano come “Where did my baby gone” da far piangere gli alberi, come una fiaba di Judy Garland interpretata con estatica grazia da un Rufus Wainwright nero, lo strepitoso swing melanconico di “Maxine” o la terminale ballatona epica “Coming Home” accostabile al più lirico Randy Newman. Non una riga fuori posto, né una canzone meno che bella (ed anzi, sei/sette piccoli capolavori almeno…) per quello che si segnala sul podio dei migliori album soul degli ultimi cinque anni, a scanso di equivoci. Non sappiamo cosa prevede il futuro per il signore in questione, se la sua fama sarà davvero planetaria e lo fischietteranno anche i marinai al porto, o come in altri casi le porte del Grand Hotel si apriranno solo per nuovi fenomeni USA e getta. Foss’anche costretto a girare per bed&breakfast ora abbiamo la coscienza di quale spirito animi quest’uomo, cantante musicista e produttore di infinita classe; possiamo senza obiezioni incoronarlo nuovo Re del Soul e attendere devoti future disposizioni. Un bagno di zucchero filato da godersi in tutta calma mentre tutto scorre veloce…