Verdena – Requiem

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Mea grandissima culpa per non aver creduto, ai tempi del loro esordio, che i Verdena fossero qualcosa in più di una semplice riduzione italiana di quanto stava accadendo a Seattle. Ma certo nulla di quell’omonimo primo atto faceva ragionevolmente presagire ciò che accadde poi, tra la svolta Agnelliana di ‘Solo un Grande Sasso’ e lo scorso ‘Il suicidio del Samurai’ che ha fatto da solidissima base per i voli pindarici di questa nuova (auto)produzione.
Il fatto è che i Verdena hanno imparato, se non a superare, quantomeno a giocare con le loro deficienze di ieri: senza nessuna pietà verso di te, redento che ti approcci ad un umile ascolto, Alberto te lo sbatte in faccia quell’italiano-che-vorrebbe-essere-inglese che un giorno gli rimproverasti, ghignando e permettendosi di prenderci (e prendersi) in giro con giochetti di pronuncia italoanglofoni: “muori delay” diventa “muori di lei” e su questa falsariga sarà un fiorire di titoli e ritornelli freak, insolitamente chilometrici- “Sotto prescrizione del dottor Huxley” – acutamente citazionistici -“Non prendere l’acne Eugenio” richiama tali Pink Floyd -o sotterraneamente letterari -l’ispirazione di Lovecraft su “Il caos Strisciante”- . E per il resto, se le liriche restano orgogliosamente senza senso, la voce questa volta trova la propria collocazione ideale, che non sta sopra ma dentro al missaggio degli strumenti, equiparata ad una corda di basso o ad un rullante: rimangono scoperti alcuni imbarazzanti momenti del vecchio pseudocut-up, specie nelle tracce acustiche, ma tutto funziona quando la macchina decide di ingranare, macinando suoni a pieno regime.

Anche la logica dell’album, in sé, si discosta parecchio da quella usata in passato: tanto per dire, ‘Requiem’ NON è un disco fatto di canzoni. La regola dei numeri chiusi che già un po’ vacillava nel capitolo precedente, qui è del tutto superata in favore di un tuttuno che conta tanto sui brevi episodi di interludio quanto su lungaggini stoner-psichedeliche che superano i dieci minuti a pezzo. Le tracce definibili come “canzoni” vere e proprie si contano sulle dita di una mano, e tutto suona più come un flusso unico, decisamente non sezionabile in singole parti.
Per il tempo di un long playing di cinquanta minuti e più i tre Verdena tornano a guardarti dall’alto in basso: stavolta però, lo fanno dalla cima di un kubrickiano monolite, nero, solido, compatto, praticamente indistruttibile. Farli tornare coi “piedi a terra” sarà difficile.