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Il gatto di famiglia se ne è andato e, guardate un po’, i Grandaddy si sono sciolti. E se non è un requiem quello che ce lo annuncia (“…what happened…”) poco ci manca. Ma d’altronde i Grandaddy non sono nuovi a metafore di questo tipo, e chissà che con le solite sgrammaticature del caso non ci introducano ancora una volta alla loro visione del mondo, fatta di oggetti a bassa fedeltà e di piccole cose che si rompono, o che muoiono -a seconda- e di felicità sublimi che iniziano e finiscono nello spazio di una giornata memorabile. Non proprio. A ben vedere in questo disco di metafore ce ne sono ben poche, e quello che c’è e che rimane in prima linea è semmai la franchezza con cui Jason Lytle si racconta, esponendo in prima persona se stesso in maniera tanto amabile e spietatamente sincera quanto (dis)incantata e disarmata di fronte al mondo. Insomma: l’umanoide gentilmente ubriaco che avevamo imparato ad amare ha ora calato la maschera.
La forte impressione iniziale (e più che positiva) è di trovarsi di fronte ad un parziale ritorno al sound e alle atmosfere di “The Sophtware Slump”, in particolare per gli squarci di elettronica spaziale e immaginifica e l’evidente deriva psichedelica presente in alcuni episodi (“Summer …it’s Gone”, “Rear View Mirror”). E a suggellare questa prima sezione di brani c’è anche spazio per una breve e commovente comparsata del nostro Jed (i suppose…), che tra le derive psichedeliche e space rock del caso ci rende partecipi della sua nuova passione per i film con gli animali (“The Animal World”) oppure del fatto che lo skateboard riesce ad appassionarlo quasi quanto e più della sua amata bottiglia (“Skateboarding Saves Me Twice”). E poi via, si scarroccia qua e là verso altre inaspettate direzioni, altre rotte potenziali, accenni di qualcosa che sarebbe potuto essere, o che sarà nei futuri progetti di Lytle: una divertente incursione nel gusto glam, sempre secondo loro però (“Where I’m Anymore”), che ci viene a spiegare il dinoccolato deragliamento menefreghista di un gatto sperduto con la voglia di sperdersi nella suburbia, o ancora un j-pop clash che ricorda dei Polysics meno matti (“Elevate Myself”) e che non è altro se non una dichiarazione di intenti, un manifesto carico di futuro, nonché uno dei pezzi migliori del piatto. E ancora una sfuriata punk di 60 secondi (“50%”) che, con la scusa di una critica ai Finley o ai loro parenti americani, sembra quasi un omaggio alle radici garage dei primi tempi. Ma a ben vedere, traccia dopo traccia, il disco assume connotati che lo riavvicinano maggiormente alle strutture più controllate e formalmente canzoni di “Sumday” e, alla fine della fiera, appare dominato anzichenò dalle atmosfere più soffuse e rarefatte di quest’ultimo (“Guide Down Denied”, “Campershell Dreams”, “Disconnecty”). E questo nonostante la cover in chiusura dal mood tutto spaziale (“Shangri-La”).
Ora capisco cosa voleva dirmi un fidato amico quando -alla mia domanda di come fosse questo album- per sintetizzare, mi rispose sornione “è un po’ l’Hail to the Thief dei Grandaddy”. Qui in effetti c’è un po’ tutto: una sintesi di quello che gli ultimi Grandaddy hanno messo insieme più qualcosa di nuovo o seminuovo. Tuttavia mancano, e dispiace dirlo, la compattezza formale unita alla profondità concettuale di quel lavoro profondamente melancolico e compatto che si chiamava “The Sophtware Slump”. E dall’altra parte certi brani -quando si fanno più “canzone” e devono sfoderare la loro costruzione melodica- non riescono a rivaleggiare con le invenzioni strepitose e con i colpi di genio (a dire il vero non rari) presenti in “Sumday”. E addirittura qua e là il songwriting di Lytle denuncia momenti di stanca, andando francamente ad infrangersi sulle secche della ripetizione. Insomma: fate un po’ voi (e magari andate a riascoltare il diario di Todd Zilla). Ma scoprire poi proprio in punta di disco un brano di una bellezza acuta e disarmante come “This Is How It Always Starts” è la prova che Lytle è ancora -e resta- un incredibile talento melodico e un genio immaginifico incommensurabile. Si vedrà.