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Cuba, Germany, Italy. Da qui arrivano – dicono di arrivare – i Combo de la Muerte, con un disco che a prima vista pare contenere la paccottiglia musicale definitiva: i “classici” hard-rock e metal più gettonati e suonati al mondo resi in una mistica versione “voodoo latin jazz”.
Preciso da subito che a me non piace per nulla neanche Raining Blood interpretata da Tori Amos, quindi un buon venti percento del giudizio negativo che sto esternando rispetto a questo ‘Tropical Steel’ è dovuto anche al mio quasi assoluto ribrezzo per le trasposizioni musicali forzate e immotivate. Mi sento in dovere di precisare anche che – per chi si sentisse pronto, dopo aver letto il resto, ad accusarmi di “chiusura mentale” o “incapacità di apprezzare le band open-minded – di norma gradisco le commistioni musicali ben fatte e contestualizzate. Invece qui il “voodoo latin jazz” presentato si rivela essere un pacchiano latin jazz da Autogrill messo insieme seguendo i soliti pattern ovviamente adattati con scarsa fantasia alla linea melodica della canzone di turno, e oltre il divertente impatto che può avere la Breaking the Law piazzata in apertura (dopo aver furoreggiato per anni su MySpace, pare) e l’atmosfera surreale di cui è intrisa la slayeriana South of Heaven – che probabilmente suonerebbe malvagia e stuprabimbi anche in versione Chicco – gli sprazzi di accettabilità risultano rari: i rifacimenti di Manowar, Ozzy e Motorhead, in quanto più aderenti ad una forma canzone facilmente trasponibile e con linee melodiche chiare ci possono quasi stare – e con questo quasi intendo dire “se proprio volete farvi due risate…”, mentre i rifacimenti di Dismember e Death (sorvoliamo la You Suffer dei Napalm Death che da manifesto programmatico del grindcore degna solo di gruppi con centinaia di show in mezzo alla polvere alle spalle è qui ridotta ad un siparietto atmosferico con delle imprecisate esclamazioni in sottofondo) risultano talmente poco aderenti all’originale da perdere gran parte dell’impatto su cui si basa l’intera operazione.
Che sia un’operazione tra il simpatico e il grottesco è chiaro: non ci troviamo ad un Aaron Spectre che rilegge Converge e Botch in ottica breakcore mettendoci dentro la sua interpretazione, ci troviamo di fronte a gente che suona, produce e arrangia latin jazz, lounge, samba e merengue e che si è divertita a creare dei pezzi che richiamino i grandi classici dei buzzurri metallari senza un minimo di compenetrazione e personalità che sia indice di aver vissuto quelle canzoni ma di essersi solo voluti cimentare in un giochetto di riarrangiamento a prima vista potenzialmente intrigante.
In finale, a cosa dovrebbe servire ‘sta roba? Di sicuro a fare tanti ascolti su MySpace, regalando i tre minuti di sorriso mentre sei in ufficio a devastarti di noia. Ma reggerne un’ora di disco…