- “…Ovviamente e in ogni tempo, per i musicisti la vita non è mai stata un letto di rose, ma ascoltando le innumerevoli storie sulla macchina infernale il cui unico scopo è succhiare via ogni traccia di vita dalle canzoni e di pastorizzare e omogeneizzare gli artisti, viene da pensare che, se oggi nascesse un Lucio Battisti, non potrebbe mai andare oltre lo status di artista di culto proprio in virtù del suo talento. Quindi, in cuor mio so che gli artisti presenti in questa collezione difficilmente verranno accettati dall’industria, proprio perché vitali e creativi e per questo ho voluto chiamare questa raccolta QUELLO CHE FACCIAMO E’ SEGRETO, dove la segretezza è, sì,una situazione imposta dallo stato delle cose, ma è anche una virtù, nel senso che quello che facciamo è segreto, non perché non meriti di essere conosciuto, ma perché non è contaminato e non ha venduto l’anima…”
Umberto PalazzoL’uscita dell’antologia “Quello Che Facciamo E’ Segreto” in allegato alla rivista abruzzese Mente Locale e la chiacchierata con il selezionatore ufficiale Umberto Palazzo ( o con chiunque fosse stato in grado di mettere assieme note di presentazione come quelle che leggete più in alto ) sono l’attesissimo pretesto per toglierci un sassolone dalla scarpa e finalmente affrontare un paradosso, anzi, Il Paradosso della situazione musicale (non solo) italiana.
Quella che chiamiamo, non senza una punta di fierezza settaria, “scena alternativa” è in realtà un calderone che contiene di tutto e di più, dal rock all’elettronica, dalla canzone d’autore al rap, con una varietà di bestiario tale che dovrebbe essere propria di un contenitore ben più capace come quello della musica POP. E invece il solo sillabare queste tre ultime lettere provoca spesso un sentore di nausea e un automatismo nervoso che porta alla distorsione del setto nasale, e il perché è presto spiegato.
Emittenti televisive, grosse radio, major e riviste patinate hanno concorso negli anni non solo per appropriarsi (come sarebbe logico) del monopolio del Pop ma anche per arrogarsi il diritto di stabilire che cosa fosse Pop e che cosa no, vale a dire che cosa valesse la pena di essere ascoltato da quelle ectoplasmatiche “masse” che costituirebbero la loro clientela: hanno iniziato le case discografiche a smettere di girare per le strade e per i locali in cerca di talenti da mettere sotto contratto, decidendo che sarebbe stato assai più economico e funzionale Farsi l’Artista In Casa e poi venderlo alle radio e ai disc jockey. I quali, a loro volta, abbandonano il criterio obsoleto e troppo “soggettivo” della qualità e smettono persino di esercitare il loro leggendario fiuto da cani da tartufo: più semplicemente se la prendono comoda e “cavalcano” solo i dischi che gli passa il Convento. Nemmeno il discrimine della quantità o quello strettamente consumistico delle vendite pagano più, l’artista suonato da stazioni e televisioni è solo quello preconfezionatogli apposta dalle etichette: si viaggia sulla fiducia insomma, e non serve nemmeno capire quanto venderà (o potrebbe vendere) il tale disco del tale tizio, che tanto una bella heavy Rotation non si nega a nessuno… purchè si presenti ben accompagnato!
Negli anni si è anche verificata qualche rara occasione in cui, contro il vento di promozioni ben più martellanti e invasive, qualche “prodotto” alternativo si è fatto strada in classifica e addirittura ne ha guadagnato la cima: in Italia c’è il caso recente degli Afterhours (l’ultimo disco sotto Mescal) ma anche quello storico dei CSI, che piazzarono il loro Tabula Rasa Elettrificata in testa alla Album chart del ’95, rompendo così l’incantesimo delle trecentomila copie. Entrambe sono realtà note e longeve dell’ambiente alternativo, che arrivavano ad un consistente risultato di vendite dopo attività più che decennali: e ad entrambi l’inespugnabile mondo del Mainstream concesse giusto qualche occhiata curiosa, un paio di passaggi radiofonici, una manciata di ospitate televisive e niente di più. Ora come ora, sulle frequenze più frequentate, i nomi di Agnelli e Ferretti continuano ad essere quelli di illustri sconosciuti, e un passaggio del nuovo singolo dei PGR resta un tabù, almeno fino alla mezzanotte passata. Nulla insomma ha scalfito l’imperturbabile Torre di Controllo, e tuttora si continua a guardare ai Subsonica e ai Tiromancino – forse le uniche entità di derivazione indipendente a godere di una certa permanenza nelle classifiche – come a delle anomalie, o nel migliore dei casi a considerarli dei “fenomeni qualità” quando, in un sistema musical- commerciale sano, gruppi di questa fatta e con questo percorso dovrebbero rappresentare la norma.
In breve, Discografia e Media non hanno più bisogno del mondo esterno: vi dettano legge ma sono di fatto gli unici soci tesserati del loro Circolo Vizioso, ed entrare a farne parte quando magari si suona per locali è praticamente impossibile. Non è nemmeno il caso di gridare al complotto o di chiamare in causa un’altra Casta di Intoccabili: semplicemente “Loro Fanno Muro”
Per reazione, chi rimane ai margini della Roccaforte si dichiara con orgoglio un autoesiliato politico: lo stesso termine “alternativo” è speculare, e presuppone necessariamente l’esistenza di un qualcosa d’altro da cui prendere le distanze. Eppure tutta la varietà che vive nel sottosuolo non ha connotati tali da giustificare una ghettizzazione del genere: spesso anzi gli alfieri di questa benedetta Alternatività non sono altro che semplici compositori di canzoni, senza stramberie da avanguardia o estremismi che possano oggettivamente risultare indigeribili ai più. Certo, c’è chi (come i musicisti della compilation in questione) si ostina a fare del rock’n’roll e a preferire le chitarre alla melodia e al belcanto, ma a cinquant’anni e passa da “Satisfaction” si può ancora considerare un paio di distorsioni come uno scandalo, un maisentito totale?
Il risultato è quello che abbiamo d’innanzi agli occhi e alle orecchie ogni santo giorno: due Universi Paralleli, due linee destinate a non incontrarsi (quasi) mai, due blocchi contrapposti. Limitandosi ad occupare gli spazi angusti dell’Underground, la “vera” musica pop si condanna a mestarsi e rimestarsi in maniera incestuosa e cede il posto che le competerebbe a Quell’Altra Innominabile Cosa: così, chi per ragioni di vocazione e di sangue vorrebbe definirsi “underground”, sotto terra ci nasce ma di tre, sei, nove metri buoni e spesso ci crepa anche e in fretta: perché laggiù, fondamentalmente, manca l’aria.
Con la musica pop al posto dell’underground e l’underground sotto le suole degli stivali, a prosperare in cima all’iceberg rimane solo il Grande Castello di Quell’Altra Cosa, quella che tutti i giorni ascoltiamo e pure non sappiamo bene come definire ma che – e di questo almeno siamo sicuri- difficilmente ci aprirà mai le porte.
Di questo e d’altro s’é chiacchierato con il signor palazzo, e se come introduzione questa vi è parsa impietosamente lunga per i vostri occhietti da internauti, sappiate che pure l’intervista non scherza affatto…
Rocklab: Tu e quelli di Mente Locale avete fatto ciò che la grande discografia non fa più da un bel po’ di tempo e cioè applicare alla lettera il concetto malinowskiano della Ricerca sul Campo: scendere in strada e andare per locali, per club a scovare cose nuove, a stanare i giovani gruppi dalle loro sale prove. C’è ancora vita là fuori? - Umberto: Non ho avuto bisogno di scovare le band, sono state le band a trovare me! Il mio è un punto d’osservazione privilegiato. Infatti sono il direttore artistico del Wake Up! che è il principale rock club abruzzese nonché estremo avamposto meridionale, sul versante adriatico, per certa musica. Organizzo circa ottanta concerti l’anno, in tutte le forme possibili.
Come dj me la cavo discretamente e in effetti, nell’area di Pescara, sono forse più conosciuto per questa mia attività che per quella di musicista. Ricevo decine di cd al mese e quasi tutte le band locali mi aggiornano sui loro movimenti. Visiono in continuazione nuove band. Al Wake Up! hanno suonato molte delle band più importanti del rock alternativo italiano e non, per lo meno quelle che ci possiamo permettere e che ci piacciono (Damo Suzuki, Steve Shelley, Gallon Drunk, Morlocks, Joe Lally, Dead Meadow, Zu, Offlaga Disco Pax, Julie’s Haircut, Moltheni, Lombroso, Spiritual Front, Paolo Benvegnù, Amari, Tying Tiffany, Three Second Kiss, Diaframma, Giorgio Canali, The Niro, Bugo).
C’è moltissima vita nelle cantine e non corrisponde affatto a quella che appare sui media, media “indie” inclusi. L’antologia “Quello che facciamo è segreto” semplicemente raccoglie il meglio di quello che mi è stato proposto negli ultimi cinque anni.
Se poi vogliamo dirla tutta, permettimi di aggiungere che in Italia la grande discografia non ha mai fatto lavori del genere. Le case italiane non hanno uffici di A&R (artisti e repertorio) e non sono mai scese nelle strade e nei club.
La grande discografia italiana è fatta prevalentemente da persone piuttosto ciniche, che preferirebbero che la musica che viene dalla base non esistesse, perché la loro idea è che al puro profitto conviene che il gusto sia totalmente manipolato dall’alto, cosa per altro discutibile anche dal punto di vista strettamente mercantile.
Per costoro ciò che viene dal basso è pericoloso, perché spezza il monopolio della proposta artistica, che è fondamentale per manipolare indisturbati il mercato, nonché il mezzo più semplice per dominarlo e, in realtà, non sanno assolutamente interpretare quello che non rientra nei loro schemi ristretti, perciò lo temono. E’ la normale mentalità, ottusa e distruttiva, che caratterizza l’industria e la società italiana. Pensa solo allo stato in cui versa la ricerca universitaria. - R: Il titolo dell’antologia è quanto mai appropriato per la situazione di certa musica, ma tradisce anche un po’ di rassegnazione. Non è che, con la scusa di fare di necessità virtù, alla fin fine un po’ ci si gode nel rimanere segreti?
- U: Neanche per idea. C’è un forte orgoglio in tutto ciò ed è l’orgoglio di essere sempre e comunque padroni di se stessi. Cosa che l’industria non concede tanto facilmente, anzi non concede affatto a chi è un suo puro prodotto.
L’artista creato dalla major è esposto al pubblico, ma paga la sua fama con la schiavitù e non è libero di neanche di fare un favore ad un amico, se questo non genera profitto per l’industria. C’è anche un caso recente che ce lo ricorda e tu dovresti conoscerlo. (il maledetto si riferisce ai Baustelle, sul valore dei quali abbiamo intrattenuto una lunga querelle. Recentemente la Warner ha impedito alla band di Bianconi di prender parte alla tracklist de “Il Dono”, antologia tributo ai Diaframma di prossima uscita. - R: Anche questo lavoro di compilazione appartiene alla tua “seconda vita” di giornalista, critico, consigliere musicale, bloggarolo e collaboratore di riviste. Dopo aver dovuto subire critiche e giudizi altrui per la tua attività di musicista, come ti trovi dall’ “altra parte”?
- U: E’ piuttosto ovvio che questo tipo di lavoro di compilazione espone ad un’infinità di critiche, cosa che è inevitabile in una qualsiasi attività umana che preveda delle scelte. Quindi fa parte del gioco e le critiche non mi spaventano, anzi in una certa misura sono indicative del fatto che si stia facendo qualcosa di molto interessante.
Per quanto riguarda la mia attività di critico mi permetto di pubblicare cattive recensioni solo se ritengo che l’artista sia pessimo al livello di essere dannoso e che abbia alle spalle una potenza economica (un contratto con una major) che renda la mia critica ininfluente per la sua sussistenza.
Se non concorrono questi requisiti semplicemente non parlo di ciò che non m’interessa. Inoltre non mi va di perdere tempo ad ascoltare roba che non mi piace, quindi pubblico quasi solo recensioni positive. - R: A riprova del tuo nuovo modus vivendi, hai già commesso uno di quei peccati veniali in cui tipicamente cadono i giornalisti, tirandosi dietro tante stramaledizioni: unire tanti gruppi in un’unica situazione solo in base alla loro provenienza geografica. Si può parlare, in termini stilistici, di una scena locale abruzzese?
- U: Non si può parlare di una scena con caratteristiche musicale peculiari, ma una scena senz’altro c’è. Anche perché c’è una continua trasfusione di musicisti da un gruppo all’altro. Quasi tutte le band sono legate fra loro per qualche motivo e, se leggi bene le note, puoi trovare motivi ricorrenti. Si potrebbe dire, che più che da uno stile, le band siano unite da un sottotesto di collaborazioni quanto mai intricato. In ogni caso ho assemblato una compilation con lo spirito del dj, non con quello del giornalista. Il primo obiettivo era che l’ascolto fosse fluido e non ho applicato nessun filtro ideologico, che è poi la cosa che distrugge questo tipo di lavori nella quasi totalità dei casi
- R: Sempre a proposito della tua regione, il Sud Italia è generalmente trascurato dalle grandi tournee e spesso soffre la carenza di palchi, strutture, organizzazioni adatte alle esibizioni dal vivo. Lì da voi come si sta?
- U: C’è sud e sud. Comunque, da un punto di vista storico, il sud è ciò che nel ‘43 stava sotto la linea Gustav. Pescara era di poco a Nord e ha pagato con la distruzione quasi totale, inoltre questa parte dell’Abruzzo ha conosciuto il fenomeno della Resistenza (la Brigata Majella, che entrò per prima a Bologna).
A Pescara la malavita organizzata non è il sistema economico-politico dominante e le cose non sono molto diverse da Torino o Bologna. In rapporto alle dimensioni della città ci sono altrettanti club, live-bar e concerti. C’è un vero e proprio quartiere notturno della città e la musica che si ascolta nei locali è prevalentemente rock. La città è viva e divertente.
Nelle terre dove dominano le mafie, invece, la situazione è molto diversa. Quello è un sud terribile e disperato. E’ vero che il mondo è un po’ quello che ti fai, ma lì c’è un potere militare spietato e vile, ricchissimo e colluso con le istituzioni che impedisce a chiunque di alzare la testa. La sensazione di asfissia è tangibile e la mancanza di qualsiasi prospettiva abbrutisce gli individui. L’ingegno senza risorse economiche e tribali non ha alcuna possibilità di sopravvivenza. Regna la violenza fisica e psicologica totale. Le mafie sono il primo problema italiano ed è incredibile che non se parli mai o quasi. Al sud l’insicurezza, che tanto spaventa il Nord e Roma, è fisiologica da sempre ed in forme molto più gravi. - R: “Quello che facciamo…” esce in allegato ad un magazine: a tuo parere questa dell’editoria cartacea ad Iva ridotta può effettivamente rappresentare una terza via per tirarsi fuori da una discografia tradizionale ormai morente?
- U: La discografia tradizionale è morta, ma non lo sa o fa finta di non saperlo. Il doppio cd è in regalo con la rivista e sta avendo un successo notevole.
Il cd come oggetto di consumo di massa, in ogni caso, è finito per il semplice motivo che è finito il lettore di cd, reso obsoleto dal lettore di file.
Mio fratello, che ha solo sei anni meno di me, manipola goffamente i dischi di vinile. Mio nipote, che adesso ha nove anni, ha un pod e avrà lo stesso tipo di difficoltà con le custodie dei cd. Le multinazionali che producono i lettori digitali sono le stesse che possiedono le case discografiche. Quindi sono le stesse multinazionali che fanno finta di rammaricarsene ad avere decretato la fine della discografia su supporto fisso ed in questo quadro non è il caso di fare delle ipotesi: basta dare un’occhiata al quadro aziendale e l’azienda, ai suoi livelli superiori, ha deciso che il ramo discografico tradizionale va tagliato. - R: Che io sappia, non hai mai bazzicato granché l’ambiente delle Grandi Label: come conosci i processi di ‘pastorizzazione’ cui fai cenno nelle note? Ce ne sapresti esemplificare qualcuno?
- U: Veramente non è così. I primi due dischi del Santo Niente sono stati pubblicati dalla Mercury/Polygram e attualmente i diritti sono di proprietà della Virgin, che non ha nessuna intenzione di cedermeli.
Quindi mio malgrado ho ancora a che fare con una major.
L’ambiente, comunque, lo conosco molto bene, non fosse altro perché suono da venticinque anni e molti amici lavorano o hanno lavorato per delle major, sia come musicisti che come dipendenti. Qualcuno persino come dirigente. Poi ogni tanto mi capitano cose come aprire un concerto di Vasco Rossi e non sono cose che succedano per caso.
Buona parte dei musicisti della mia generazione che incidono per delle major sono cari amici con i quali ho diviso belle esperienze e sono sinceramente contento per il loro successo.
Qualcuno ha saputo amministrarlo, altri no. Fra i primi metto Marlene Kuntz, Afterhours, Subsonica, Verdena e PGR. Fra gli altri Morgan, che pure è uno dei talenti più grandi.
Conosco poi una sfilza di persone che sono state completamente triturate dall’impatto con l’industria. I loro nomi sono stati da lungo tempo dimenticati dalla massa, ma non da me. Così come non ho dimenticato le loro storie. E poi ci sono quelli che lottano disperatamente, per restare o per tornare a galla. Conosco una gran quantità di storie, che però alla fine sono abbastanza simili fra loro. Diciamo che ho i miei buoni motivi e le miei brave fonti. - R: Con i tuoi Santo Niente sei stato ospite presso una delle più significative (o sfortunate, a seconda dei punti di vista ) esperienze di discografia indipendente italiane, il C.P.I. Credi che, con l’attuale situazione delle Major, potremo finalmente assistere ad una rivincita delle Piccole?
- U: Francamente no. L’occasione c’è stata negli anni novanta ed è stata malamente sprecata. Ogni volta che qualcuno ha avuto l’opportunità di cambiare le regole del gioco alla fine ha preferito non rischiare ed adeguarsi al vecchio sistema che poi è quello sanremese-nazionalpopolare e ora siamo al punto che le indipendenti scimmiottano le major in partenza e cercano di accattivarsene le simpatie.E’ piuttosto ovvio che siano destinate a seguire la loro stessa sorte.