Opeth – Watershed

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Con Fredrik Åkesson e Martin Axenrot a sostituire (alla meno peggio, verrebbe da dire) Peter Lindgren e Martin Lopez, assistiamo un po’ intristiti al parto di un disco degli Opeth che non riesce a demolire la convizione che ‘Ghost Reveries’ sia stato per ora l’unico episodio fortunato del post-‘Blackwater Park’, un parziale ritorno a rotte conosciute che non disdegnava un leggero ammorbidimento dei suoni e sporadiche e lievi innovazioni stilistiche. In ‘Watershed’ sembra avvenire un curioso fenomeno di sdoppiamento della personalità, la perfetta commistione tra death metal e stacchi acustici dalle tinte progressive che ha caratterizzato da sempre gli Opeth si sfalda, la parte prog ’70 si isola in un citazionismo forzato e fastidioso, le linee vocali dell’amatissimo leader non si allontanano mai dal già sentito e la loro forza viene totalmente annullata da una sovrabbondanza di archi e tastiere che rendono melensa e zuccherosa buona parte degli episodi meno tirati – in netta maggioranza, facendo rozzi conti di minutaggio. Colpisce Coil in apertura, gioiellino acustico con la tanto attesa voce femminile, fa ben sperare Heir Apparent, dissonante e pestona come non si sentiva dai tempi di ‘Deliverance’ – anche se Mikael si dedica a tempo pieno al suo growl più scuro e profondo senza la minima variazione di registro, quasi a voler fare il cattivone per forza -, e si gode parecchio con quella The Lotus Eater che si piazza di diritto tra le loro migliori di sempre, e che purtroppo è a tutti gli effetti l’ultima canzone degna di nota del disco. Dico canzone perché del seguito, oltre alle smoscissime ballad Burden e Porcelain Heart, la prima spudoratamente settantiana, la seconda costruita incollando riff casuali (alcuni anche molto belli, talvolta), neanche la penultima Hessian Peel, dopo un ottimo inizio, riesce effettivamente a mantenere una forma definita e coesa, scadendo subdolamente mentre gli undici minuti di durata anestetizzano l’ascoltatore con buone intuizioni quanto basta per impedirgli di lamentarsi troppo. Non parlo dell’ultimo pezzo che è semplicemente banale e inutile, una roba che qualche anno fa gli Opeth si sarebbero vergognati di proporre persino come b-side. No, l’incontro con Wilson, a posteriori, non è stato positivo per nessuno dei due gruppi, ma probabilmente fatale è stata la formazione dimezzata e reintegrata alla meno peggio con musicisti ovviamente capaci e preparati, ma semplicemente ‘estranei’ al processo compositivo, incapaci di canalizzare le idee di un Åkerfeldt sovrabbondante e ispirato a tratti. La produzione è probabilmente una delle migliori di sempre: la Roadrunner paga, ma non basta quando manca l’anima, e quella poca che ci si mette viene annegata nel tentativo di coprire la carenza con raffinati arrangiamenti e velleità “sperimentali.” Per chi non fosse convinto troppo, consiglio caldamente di riascoltarsi il disco, e subito dopo ‘Ghost Reveries’. Poi ne riparliamo.