Non raramente anche le frange più estreme della logica e della filosofia si ritrovano a doversi fermare, fare una pausa, prendere coscienza dei propri limiti per rimettersi alla discrezionalità degli individui, all'interpretazione dei tanti singoli che, andando fatalmente a coincidere, creano poi una massa che condivide una certa percezione di un dato fenomeno. Ecco che così si crea una discrezionalità collettiva;
Quel che più in concreto s'intende come senso comune. br>
Ebbene, c'era qualcosa di strano nell'aria avvicinandosi all'Alcatraz la sera del concerto dei Down: forse l'attesa durata un'eternità di vederli in una data italiana da headliners, forse l'entusiasmo neo-adolescenziale che animava l'umore dei più… chissà! Difficile definire, più facile percepire con nettezza questa coincidenza di sensazioni che diventa una sorta di serenità diffusa. D'altronde, in uno scenario contemporaneo caratterizzato dall'usura del suono e della crisi di legittimità del rock, può essere rassicurante immaginare d'assistere al live set di un supergruppo cui si può forse biasimare una qualche carenza di bon ton, ma non certo la mancanza d'esperienza e militanza sui palchi sudati di mezzo mondo. Con i Down entra in scena “la scena”… il buon gusto nel far musica casinista, la passionaccia per il south, lo stoner, il doom, l'hard, il thrash! E nonostante i personaggi della band non si prestino certo a sofismi e dissertazioni, par giusto riflettere un momento sul perché del consenso uniforme che da anni riscuotono.
E' un'atmosfera festosa quella che si vive nel locale, e un po' di fortuna aiuta gli audaci: credo che un Phil Anselmo in tale stato di grazia se l'aspettassero in ben pochi. Urla, si sbraccia, istiga ritualmente la folla ad immergersi nel wall of sound della scaletta; scherza! Sì, possiamo tirare un respiro profondo e soddisfatto perché il frontman di riferimento del thrash anni 90 è davvero in una forma psicofisica commovente. La band suona sciolta come se ci si trovasse tra compagnoni ad assistere alle prove in sala; battute, boccacce, relax e piacere di essere qui e ora.
Dev’essere questo a convincere un po' tutti. Questo il senso comune che si condivide, quel “metter tutti d'accordo” che è ormai pura stregoneria. Non c'è molto spazio per le pose, l'etichetta o quant'altro, i Down sono uno di quei gruppi che dà con estrema onestà quel che si può chiedere ad un concerto rock-metal dal vivo, ma con in più quel tocco di familiarità e carisma innato che smuovono nella massa leve un po' più nascoste. Si ha la percezione chiara che i cinque non abbiano bisogno di orpelli per restituire quell'attitudine che è parte del loro modo d'essere: emblematico e autoctono. Prima del concerto si sono susseguiti video selezionati dalla band che immortalavano performance live di Black Sabbath, Rainbow, Lynyrd Skynyrd… è il serpente che si mangia la coda, che se ne nutre. E' il rito che si ripete, una magia sciamanica che l'uomo ama perché lo celebra, lo inserisce nello scambio generazionale con accoglienza.
Non a caso i pezzi dei Down suonano come degli instant classics, si autolegittimano prima ancora che sia il tempo e la ripetizione e conferirgli importanza, e fascino.
Che suonino la quasi totalità di 'Nola' oppure estratti dal secondo e terzo disco poco cambia: Bury Me In Smoke o Three Suns and One Star sono la stessa liturgia celebrata e inevitabile. Ma in una scaletta dedicata al primo disco (menzione per Temptations Wings commistione perfetta, Lifer dedicata al maestro Darrell, la corale Stone The Crow e la mistica Jail) svettano alcune chicche più recenti come New Orleans Is A Dying Whore, On March Tha Saints, Learn From This Mistake e Ghosts Along The Mississippi. E dopo quasi due ore in cui ci si è ricongiunti con il concetto di grande-concerto-rock, si è quasi increduli per quanto sia stato semplice far chiarezza su un punto: il rock e i suoi riti, che si mescolano con la coscienza collettiva, restano e si autoalimentano. E questo è semplicemente bello, e potente…
Foto di Manuel Martini