Stavo per dirmi: “aò, stasera proprio tutto perfetto al Circolo” quando è saltata l’aria condizionata, ma il resto, c’è da dirlo, ben merita due parole di lode – che sennò qui stiamo sempre a criticare, a sputarci nei piatti, a mugugnare mai contenti: pubblico cospicuo ma non accalcato, un’ora e mezza di Silver Mt. Zion a dieci euri ad un orario umano senza tredici (soliti, non contestuali) gruppi d’apertura, suoni perfetti e resa strumentale ottima. Immagino che in un ambiente ancora più intimo ci sia da gioire, con i Silver Mt. Zion, ma tutto non si può avere. Efrim si spreca in ringraziamenti e fa un sondaggio; dai risultati apprendiamo che nel pubblico di questa sera ci sono più musicisti che studenti – e lui gli consiglia giustamente di trovarsi un lavoro – solo tre disoccupati, un paio di professori, e nessun politico: segno che molti si sono astenuti, hanno mentito, o che il paese andrà allo sfascio. Che poi i musicisti siano tali c’è sempre l’ombra del dubbio, dopo che sulle prime due canzoni si sprecano gli applausi inopportuni modello Canale 5 appena la musica si inabissa in qualche stacco più sommesso, senza una punta del dovuto rispetto di chi evidentemente non conosce i pezzi e cerca di “capirli”, aspettando la fine e contando fino a cinque, prima di applaudire. Manca Beckie Foon, e anche Ian alla seconda chitarra, ma le violiniste Sophie Trudeau e Jessica Moss (amore a prima vista, tra l’altro) gestiscono benissimo la situazione e intrecciano controcanti da brivido assieme alla particolarissima voce di Efrim. 1,000,000 Died to Make this Sound guadagna parecchio dal vivo, God Bless Our Dead Marines conferma lo stato di grazia del periodo “Horses in the Sky” con il suo crescendo commovente e una prima parte decisamente più tirata. 13 Blues for Thirteen Moons decolla poco ma resta un bel pezzo, con un gran finale, Microphones in the Trees brilla di luce propria e il pezzo nuovo promette tantissimo, con un lavoro sulla ritmica dinamico e inusuale per i continui ma costanti riflussi cui i canadesi ci hanno sempre abituato. La coesione e l’affiatamento, gli intrecci strumentali e vocali, il delicato spegnersi delle cantilene folk in ricchi tripudi di delay e tremoli e feedback che in fondo è il loro punk rock testimoniano che all’Hotel2Tango tutto quello che gli serve per registrare un disco è accendere microfoni e mixer, dare l’ok e godersi ore di magia, di cui stasera ci è toccato un assaggio.
Le foto presenti non si riferiscono al concerto recensito e sono di KirstieCat