TV on the Radio – Dear Science

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Mi è capitato negli ultimi mesi di accostarmi a dischi nei quali si respira un’aria nuova, un certo afflato di speranza nel cambiamento, un sentore di qualcosa che sarà, un’alta pressione indefinibile, segno che la musica riesce ancora (come dovrebbe) ad avere intuizioni, ad essere divinatrice dell’indicibile, a guardare al di là della coltre di nubi di ciò che c’è. A cantare un mondo libero dalla favola del migliore dei mondi possibili, e forse a cambiare lo scorrere degli eventi. Perché il migliore dei mondi possibili è quello che verrà.
Nessuna rivoluzione, ma un costante e quieto ribadire un’atmosfera, come un segnale continuo intercettato nell’etere di una prima freddissima giornata di primavera, con l’aria frizzante e leggera, che ti fa quasi male alla testa.
Si riusa materiale già visto, già sentito, si ribattono strade già battute, ma con un passo diverso, con il passo leggero e sfrontato ed il cuore altrettanto.

Un sentire che capta segnali di gioventù, una gioventù spontanea, quieta, illuminata, entusiasta intelligente e con gli occhi luminosi, ben diversa da quella che ci descrivono in televisione, e comunque ancora anni luce distante da quella italiana.

Il tutto avviene sotto il segno di una commistione.
Da una parte dell’oceano la wave più oltranzista (new rave) che sta chiudendo il cerchio della commistione tra rock, hardcore e ritmi danzabili iniziata negli anni novanta da alcune band e dj dall’occhio lungo (ma questa è un’altra storia). Dall’altra le atmosfere “glitch” o glam, artsy, folk, e chi più ne ha più ne metta, e a tratti psichedeliche, che sposano la causa dell’elettronica ed – evitando le paraculate dell’indietronica – producono dischi estremamente sorprendenti. Due nomi: Mgmt ‘Oracular Spectacular’, Tv On The Radio ‘Dear Science’, senza dimenticare l’eclettismo con cui fanno eco in terra d’Albione gli Hot Chip con ‘Made in the Dark’.

Non sarà un caso, ma entrambe le band di cui sopra hanno base a New York, e riproducono con estrema efficacia la multiculturalità di una città così multiforme e vitale da dare le vertigini, con la spontaneità di qualcosa di già digerito, senza la protervia di un’ideologia di multiculturalismo da strapazzo.
La musica al centro, non importa quale, non importa con chi.
Gli MGMT passano da uno stile all’altro con la grazia di un colibrì, I TVOTR si servono di formazioni modulari adatte alla scopo di portare a casa ciascun brano, e mescolano musica bianca a musica nera in un modo che mi fa vergognare di usare queste definizioni.

Multiculturalità, centralità della musica, libertà espressiva.
Colpisce come un pugno nello stomaco (e a noi stomaci italiani in particolare) l’audacia espressiva con cui queste opere sono congegnate, perfetti manifesti di libertà di pensiero, spontanee dichiarazioni di fiducia nelle proprie visioni, il parto di menti fortemente stimolate da correnti di energie positive, contagiate, commiste e virali esse stesse.

La 4AD, etichetta da sempre all’avanguardia nelle nuove forme espressive non poteva lasciarsi sfuggire questa occasione, e infatti almeno dal 2006 ha accolto nel proprio roster i Tv On The Radio, producendo il loro secondo album, ‘Return to Cookie Mountain’.

Anno 2008. Esce ‘Dear Science’, il loro ultimo lavoro.
I Tv On the radio sono uno strano collettivo che ruota attorno ai tre membri fondatori, degli eclettici artisti newyorkesi ultratrentenni che da anni stanno con entrambe le scarpe ben piantate dentro e dietro ai controlli della scena musicale indipendente newyorkese (e non solo).
Autoproduzione? Poco ci manca. Ma solo nel senso che questo disco si avvale dell’amore dei suoi creatori dall’inizio alla fine. Superproduzione? Certo, ma senza l’omologazione e la serialità delle fasi di lavoro di un prodotto di massa: una perla rara, per così dire.
Abbiamo l’anima più cupa e visionaria di Tunde Adebimpe e quella più mutevole di Kyp Malone, che spazia da un’irridente estetica di rilettura del funk (Crying oppure Golden Age) al racconto archetipico sulla morte della cicogna e del gufo (Stork & Owl), da commuovere e farti tremare i polsi per quanto è umano. Così umano, primigenio e dolce, da curare.
Personalità diverse che si avvicendano senza soluzione alla scrittura dei brani, tanto da divertire, coinvolgere, stregare in continuazione. Abbiamo il palesarsi di piccolissime innumerevoli buonissime idee, o di veri e propri colpi di genio, come il cambio di passo conferito alle liriche nell’esatta metà di Dancing Choose, che va a riecheggiare un pezzo estremamente bianco come It’s The End Of The World degli R.E.M. ma attraverso il setaccio di tutta una cultura black di quartiere. O il cambio strepitoso che spezza Shout Me Out in due tronconi: il sorgere di un sole. Fino ad arrivare al centro di rotazione, che è Family Tree, e che nel leggero feedback del suo fender rodhes racchiude tutta la magia di un disco entusiasmante, la commovente concessione di un lusso per l’ascoltatore, noncurante dei tempi oscuri: l’amore per i dettagli di una produzione minuziosa (David Andrew Sitek), la qualità artigianale e la sostanza impensabile per una produzione di massa. La voce di Adebimpe profonda come la malinconia e la melodia epica e meravigliosa a fare il resto.
E ti potresti fermare qua, e sarebbe stato comunque un gran bel viaggio. L’antitesi al cuore di tenebra, la salvezza laica del mondo, di cui Lover’s Day potrebbe essere l’inno nazionale. Yes here of course there are miracles.