Black Mountain – Wilderness Heart: Geriatrical Rock?


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The Hair Song

L’ACCUSA P.M. Simone Dotto

Il primo reperto che vorremmo portare all’attenzione della corte si chiama Stormy High, traccia d’apertura del disco del 2007, In the future. Non tanto per via del riff granitico che dà il passo alla cavalcata, quanto per il sound “sporco” della registrazione: un amore filologico nei confronti dell’hard rock anni ’70 così prepotente da non lasciare fuori nulla, tantomeno strumentazione e modalità di produzione. Fino a qui niente di male e, soprattutto, niente di nuovo: sull’ortodossia per i dogma anni settanta diverse formazioni hanno già costruito fior di carriere – vedasi Motorpsycho. Ora si confronti l’ascolto con quello dell’album in questione, il nuovo Wilderness Heart che lo stesso imputato Stephen McBean ha definito il suo lavoro “più metal e più folk”. Ancora una volta, niente di nuovo: di band che mettono l’armeria pesante al servizio della tradizione acustica ce ne sono sempre state e tutt’ora ce ne sono. Ad ascoltare le eco dei fatidici anni settanta, pare anzi di ricordare qualcuno che affiancò alle chitarre elettriche le trame del british folk, in un altro (ben più decisivo) “terzo disco”.

Si potrebbe andare avanti ancora a lungo ad annoiare Vostro Onore, collezionando i precedenti storici che rendono immancabilmente gli spunti offerti dal terzogenito dei Black mountain dei “nientedinuovo”. Il punto non sta tanto nelle ovvie similitudini con i vari Black Sabbath e Deep Purple, nella somma delle voci di McBean e Ashley Webber (che in totale danno – fateci caso – Robert Plant) o in titoli programmaticamente nostalgici quali The Hair song, Let spirits Ride, Buried by the Blues…Il citazionismo estremo è una pratica fin troppo diffusa in questi tempi strani per farne una colpa esclusiva di Mcbean e soci.

No, la nostra accusa è rivolta a un percorso che – giunto alla terza tappa – non ne vuole sapere di scollarsi da copioni già scritti, percorsi già tracciati, evoluzioni precotte. Paradossale, se si pensa che il periodo chiamato in causa fu quello che più di ogni altro assistette all’abbattimento delle frontiere, a nuovi esaltanti sconfinamenti. Quella riposta nel verbo dei Settanta oggi è diventata una fede, quegli anni eroici una specie di sacro pellegrinaggio da ripercorrere, stazione dopo stazione, senza possibilità di deviazione.

Vi prego allora di porre attenzione all’ultimo reperto, la copertina: l’immagine -il riflesso se preferite – di uno squalo che minaccia di uscire dalla vasca in cui è prigioniero. Bene, signori giurati, noi oggi qui vi possiamo garantirvi personalmente che quel vetro non si infrangerà, e che, per quanto possa mostrare i denti, la bestia continuerà a rimanere al proprio posto. Quello è uno squalo adeguatamente sedato, così da non essere più un pericolo reale ma da continuare a sembrarlo agli occhi dei visitatori. Allo stesso modo i Black mountain sono hardrocker addomesticati a dovere, il loro un Wilderness heart buono giusto per turisti e scolaresche in cerca di brividi: il proverbiale pescecane che abbaia ma non morde, insomma, garantendosi con la sua buona condotta un seguito discografico potenzialmente infinito. Sulla stessa falsariga, preparatevi allora ad accogliere lo Squalo 2, lo Squalo 3, lo Squalo 4…

LA DIFESA Avv. Enrico Calligari

Ammetto che questa difesa mi spaventava. Non tanto per la sua difficoltà, ma al contrario perchè c’erano tutti i presupposti per pensare che mi sarei dovuto accollare un compito ben più grande del mio modesto ruolo, ovvero di difendere, oggi, nel 2010, il buon vecchio, sano e corroborante Rock ‘N Roll. E invece l’Accusa evita abilmente questo terreno, facendo finta di depistare su qualcosa che potremmo chiamare “evoluzione artistica”. A questo punto sarà un onore per me esplicitare la verità che è già sotto gli occhi, pardon, …le orecchie, di tutti.

Mi perdoneranno, il gentile accusatore, Vostro Onore e la Giuria tutta, se in questo contesto deputato all’approfondimento musicale, taccerò le argomentazioni addotte all’accusa come “pippe mentali”, non in sé stesse poco importanti, ma decisamente in quanto tali poco rock. Ma andiamo con ordine. L’evoluzione artistica, si diceva. Sfido chiunque a sostenere che Wilderness Heart sia troppo simile a qualunque altro album dei Black Mountain. La svolta c’è, soprattutto rispetto al precedente In The Future, citato come reperto. Si tratta di album sicuramente più radicale e godereccio. I bordoni di tastiere e distorsioni sono più grassi, le melodie più spiccie, meno fosco, in generale, il canale che conduce il loro tipico afflato è meno tortuoso e più diretto. Tutte cose che hanno molto a che fare con le “pippe” ma poco con quelle “mentali”. Visto poi da un punto di vista storico-musicale, insistendo su di una ingenua visione che contempla la linearità dello spazio-temporale forse si sta cercando di accusare una band canadese del 2010 di fare un rock americano dannatamente datato. Nello specifico, però l’evoluzione artistica di cui si parlava non solo c’è, eccome, ma, sempre ipotizzando la musica come un semplice binario dove ci si possa muovere solo avanti o indietro, si accusa questa di essere retrograda anziché diretta in chissà quale direzione ciascuno possa chiamare futuro. Ebbene, pur essendo io tuttaltro che un freakkettone, mi appello di nuovo al sommo Dio del Rock, invocando un ascolto più viscerale. Se ascolto alla radio o in un negozio qualcosa che mi prende allo stomaco, poco importa chi è e da dove o da che epoca viene, quella è la roba che fa per me, punto e basta. Quando parla il corpo, la mente può riposare. Potrete parlar male dei Black Mountain con i vostri amici in comitiva, ma non potete fermare le vostre gambe o le vostre braccia davanti ad un rock ‘n roll che, vi sfido a definire meno che ben fatto.

Retrogrado, si diceva? Forse bisogna ripensare la contemporaneità come un momento più complesso, dove le persone sono più sfaccettate, multidimensionali, non devono abdicare alla propria credibilità per concedersi un piacere che viene da lontano, e gli strumenti a disposizione degli artisti, i repertori, il materiale, nell’epoca della citazione come essenza del Pop come inteso da Warhol si moltiplicano e valgono fintanto che solleticano non banalizzazioni, ma spiriti liberi. E se Wilderness Heart fosse un disco pop in senso moderno? Se gli slanci wave di synth, le melodie brit-pop, certi accostamenti tra vintage, revival e riappropriazione, tutte cose presenti e non secondarie nel disco ma ben lontane dall’essere immaginate nei 70ies in cui i Black Mountain si sono calati, intercettassero effettivamente un sentire più contemporaneo?

Infine Signori, calo il mio asso nella manica e, a compendio e conferma di quanto detto finora non posso fare altro che chiamare sul banco dei testimoni di Rocklab, le nostre RocklabView, il pubblico stesso dei Black Mountain. Buona visione.