Iron & Wine – Kiss Each Other Clean


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Your Fake Name Is Good Enough For Me

L’ACCUSA

P.M. Enrico Calligari

L’Egregia Giuria mi perdonerà se per l’accusa in questione non punterò a convincere una maggioranza di persone ma chiamerò all’adunata un’elite cui, per evitare piaggeria, non do per scontato essa appartenga, ma posso solo augurarmelo.

Mi rivolgo a chi nella musica cerca emozioni forti, intensità e, soprattutto per certi generi, la capacità di fare male, in sostanza, di andare in profondità.

Iron & Wine è sempre stato la promessa di tutto questo, con il suo folk scarno e miratissimo, le sue melodie saporite, quella barba e quella ritrattistica estatica da bonnie-prince-billy-wanna-be.

Ma proprio lo scarto con Will Oldham, alla lunga, mette in evidenza i limiti del cantautore del South Carolina, di come la strada per la tradizione non deve passare per forza per i folklorismi di cui costui si ammanta, di come non sia un percorso che deve essere rassicurante ma che può ancora scuotere e soverchiare la semplice contemplazione, non accarezzare la pelle ma affondare sapientemente le membra per raggiungere le ossa. Lungi da me disprezzare certe cose ma credo che persino fuori dall’elite che citavo sarà chiaro che Will Oldham non finirà mai nella colonna sonora di Twilight. E Bon Iver? Dirà chi sta origliando questo discorso. Bene, chi non riconosce il diverso livello di lirismo tra Bon Iver ed Iron & Wine è autorizzato a saltare la lettura di quanto segue, rimettersi la cravatta nei pantaloni, o le Crocs ai piedi e leggere altrove.

Oggi con Kiss Each Other Clean, Samuel Beam prova ad evolvere il proprio stile, finendo, come risulterà ovvio a coloro cui parlo, in un baratro impietoso. Un disco in cui la scenografia folk precedentemente eretta, su cui la sua figura si stagliava, rimane intatta, ma non meno posticcia, in appena un paio di brani.

Nel resto del disco c’è una spasmodica ricerca di arrangiamenti a vanvera, distorsioni un tanto al kilo, elettronica a velo tanto per gradire, sax burrosi, uvetta passita di fischietti brazileri nascosti dietro l’angolo, che nulla hanno a che fare con le canzoni, le spennella non le valorizza. Canzoni che mostrano la corda pure in questo afflato carnevalesco. Un affanno che non soffoca le pretese di voler alzare il tono per tentare di riciclarsi in una sorta di Donald Fagen For Dummies. La sostanza rimane la stessa, ovvero queste lunghe strofe-ritornellose fatte per entrare in testa di una scrittura gradevole ma che nella Scala Barlow (quella che va da Gary a Lou) è più vicina a Back For Good, arrangiamenti d’arredo, e un incipit, quello di  Tree By The River, rubato all’Umberto Tozzi del Sanremo ’91, in una disperata ricerca della piacevolezza, un lustrare la propria superficialità sperando in qualche gioco di luce o trasparenza.

Sembra che Samuel abbia ficcato la sua faccia in un secchiello pieno di suonetti e suonerie e ne sia uscito con la barba inzaccherata di rimasugli vari. Perdonate l’immagine disgustosa, ma visto il titolo del disco, io mi preoccupo.

LA DIFESA

Avv. Emanuele Binelli

L’arte ha bisogno di limiti, diceva qualcuno. Non è un caso se, andando a leggere la biografia di Samuel Beam, in arte Iron & Wine, si scopre che le sue prime prove come musicista vennero da lui registrate su un registratore a quattro piste prestatogli da un amico.

Dico che non è un caso perché, ascoltando in particolare questo suo Kiss Each Other Clean, la prima cosa che colpisce l’attenzione è la sua estrema dote di sintesi, la pulizia delle scelte in sede di sovraincisioni e di arrangiamenti: in un’epoca in cui i programmi di registrazione ti permettono praticamente un’infinita quantità di sovraincisioni, Iron & Wine sembra essere in grado di usarne il numero giusto, di dosarle con sapienza, con la classe di altri tempi, ottenendo un effetto antico, beatlesiano, da instant classic: non c’è un colore sprecato, non un elemento di troppo. Ovvero: paragonato al campione delle overproduzioni Sufjian Stevens vince 10-0.

Sì, ho detto Beatles, signori della corte! Ma il gioco dei riferimenti potrebbe andare avanti all’infinito, tanti sono gli elementi che compongono la tavolozza artistica di questo disco: Simon & Garfunkel, Neil Young, Nick Drake… Steely Dan? Hanno scritto poderosi inni di raffinatissimo rock americano radiofonico, e francamente poco hanno a che spartire col nostro lieve amico, se non fosse perché gli uni di acciaio, e l’altro, molto più giustamente e poeticamente, di semplice ferro (il che vuol dire che prende ruggine).

Peraltro Bonnie Prince Billy è forse più vicino al nostro cliente, ma su un versante decisamente più orientato al folk e al roots americano, che condivide semmai l’elegia di Neil Young, ma mai e poi mai le agrodolci scatole cinesi psichedeliche di questo Kiss Each Other Clean.

E visto che parlando di scatole cinesi, di psichedelia e di quattro piste ormai abbiamo evocato per la terza volta i Beatles, mi viene facile in questa sede chiedervi di ricordare, signore e signori della corte, se non sia questa una delle virtù del genio artistico e della classe musicale vera dei quattro di Liverpool: quella di non aver affatto bisogno di dimostrare la grandezza del proprio genio (Steely Dan) o di esasperare troppo la faccenda (Bonnie Prince Billy) per scrivere dei capolavori semplici, o dei semplici capolavori, fate voi.

Il mio cliente, Samuel Beam, in arte Iron & Wine, sembra essere stato in grado, con questa sua ultima prova discografica, di fare propria la lezione di dischi come Revolver o Rubber Soul, e di scrivere brani che pur nella loro maestria costruttiva restino amichevoli, pop e accessibili, senza schiacciare l’ascoltatore, e per giunta senza intellettualismi di sorta. E questo è, secondo il modesto parere della difesa, il tratto che rende tanto prezioso, accattivante e pulito questo lavoro, che io oserei definire un capolavoro alla portata di tutti.

Revolverate per tutti.

La difesa.