Toro Y Moi – Underneath The Pine


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New Beat

L’ACCUSA

P.M. Roberto Strino

Egregi signori della corte, della giuria e del pubblico, oggi mi appello a quello che può essere considerato il buon senso dentro ognuno di noi.
Voglio esporvi il caso di Toro Y Moi, pseudonimo di un giovane artista statunitense, considerato un prodigio della chillwave.
Suddetto genere è un ibrido fatto di richiami di genere diversi, che l’enfant in questione ha la fama di saper manovrare e miscelare molto bene.

Ma analizziamo ciò di cui è fatta la sua musica, la sostanza dei suoi dischi.

Ciò che sentite non è forse la colonna sonora di qualche telefilm degli anni ’70 che guardavate da piccoli? Quei synth che avvertite non sono esattamente gli stessi che usavate nei vostri garage quando tentavate di fare un po’ di musica?
Non voglio fare un elenco di album dal quale l’artista in questione ha attinto, ma voglio sottolineare che il riarrangiamento di queste sonorità, lanciate su un tappeto di missaggi alla Air, per me non può essere motivo di tale merito!
I lavori contaminati, composti da più influenze, possono essere molto originali, ispirare e far fare passi avanti seri alla storia musicale.
Qui io non ci vedo questo. Dentro di noi c’è l’interruttore per capire di che spirito è pervaso quello che ascoltiamo. E allora ascoltiamolo questo disco! Guardiamoci dentro finché avremo assaporato ogni singolo suono, e ci renderemo conto che qui non c’è nulla che non fosse già esistito, e proposto esattamente nello stesso modo, solo su un piedistallo diverso, un po’ più veloce per inseguirci meglio nella nostra epoca, ma che non pretende niente da noi.
La situazione è chiara. Toro Y Moi è un tipo trendy, giusto per il mercato indie, nerd al punto giusto, che mette nei dischi roba che ha il giusto dosaggio di elettronica e vintage da poter essere messo su con successo a qualche aperitivo di radical chic ed essere fintamente apprezzato da chi vuole apparire dai gusti sofisticati.

Non sto dicendo affatto che questo secondo lavoro non valga niente, o che non è godibile dal punto di vista dell’ascolto. Ma ho paura che la cura che è stata messa nel campionamento superi di gran lunga la passione che è stata riposta nella stesura dei pezzi. Il lavoro è sicuramente un imballaggio più pop di un concetto d’essai, ed è apprezzabile la qualità delle tracce, però questo lavoro non va al di la di fare il punto della situazione di quello che può essere una buona produzione indipendente adesso. L’entusiasmo per quest’artista può essere giusto solo nella misura in cui si considera che non ha, almeno per ora, dato prova di essere un buon compositore oltre che un buon produttore.

Avere un buon gusto musicale non comporta necessariamente saper veicolare emozioni.

Se alle fregiate architetture dei suoni si aggiungeranno ispirate architetture delle canzoni, mangerò la mia laurea in legge davanti a tutti voi e farò il mea culpa!

LA DIFESA

Avv. Enrico Calligari

Doveva succedere, era prevedibile, qualcuno doveva pagare pegno, col secondo album, alla creazione di una nuova ondata, per la cosidetta chillwave. E’ fisiologico, il secondo disco, post-hype, non si perdona. Poteva capitare al secondo Memory Tapes, al nuovo Atlas Sound, ma Toro Y Moi ha, ahi-Lui, anticipato tutti.

Devo dire, Signor Giudice e Pubblico in Giuria, che inizialmente sono rimasto ingenuamente sorpreso di dover difendere il disco in questo pubblico dibattito. Non ci sono infatti recensioni che contengano delle vere critiche, anzi quasi tutte, compresa la nostra accusa, sono costrette ad ammettere che si tratta di un bel disco, ma ci si gira intorno, attorno alle “pose indie”, ai mille suoni già sentiti (ma ancora stiamo così?!), alla mancanza di canzoni (!), alle sorti della chillwave, per potersi sforzare di mantenersi tiepidini, per mettere le mani avanti e poter dire tutti “mah, io la chillwave l’ho mollata prima di voi”. Una cosa che chiunque segua la critica musicale non può che identificare quantomeno come “tipica”, assolutamente banale.

Il problema è invece che il disco è davvero bello. La sua piacevolezza ricercata, con un artificio retorico, viene capovolta in un difetto senza spiegarlo. Arrangiato con molto più che semplice gusto, con una fusione tra brano e confezione in linea con i canoni della modernità, con commistioni anche ardite tra psichedelia sixities, funky sottotraccia e post-lounge carnevalesca, seduce tutti. Eppoi ovviamente le colonne sonore italiane anni 70, che se le cita Mike Patton va tutto bene, ma il ragazzetto nerd in questione ci piace blastarlo.

Se tanto mi pare ovvia la qualità del prodotto, direte voi, come giustifico di dover star qui a difenderlo? Un fatto è evidente. L’accusa principale è che, al secondo disco, questo ragazzo non ha sconvolto la Storia della Musica, ma ha “solo” reso l’idea dello stato dell’arte della produzione indipendente del 2011. Visto che sul fare passi avanti seri nella storia musicale negli ultimi dieci anni potremmo indicare una manciata di dischi, devo prepararmi a difendere i Radiohead o i REM? Davvero?!

Secondo aspetto fondamentale. Credo che non si sia sottolineato abbastanza e non lo sia fatto con malizia, che questo secondo disco è ben diverso dal precedente, e che per molti versi va in una direzione diversa rispetto al filone chillwave, scavalcandolo. La voce sta prendendo corpo, l’ovattatura tipica delle produzioni hypnagogiche stile anni 80-90, sta lasciando spazio a suoni più eclettici, non ci sento nulla post-1979, e già solo questo salto parecchio fuorimoda dovrebbe far deporre molte accuse. La mia preghiera quindi è di ascoltarvelo il disco, un disco capace di trasformare i vostri aperitivi in viaggioni esotici aggrappati all’ombrellino del vostro cocktail, e non rinchiudete forzatamente il ragazzo nella gabbia che avete creato per lui, ma lasciatelo lavorare.