Black Lips – Arabia Mountain

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Giugno 2011 Vice Black-Lips.com

Family tree

Cos’è che ha reso i Black Lips un gruppo di culto tra i punk kids dell’orbe terraqueo?  Senza dubbio un fattore sempre più raro (e meno ricercato, verrebbe da dire, se non fosse una contraddizione) tra le rock band post 90s: il candore. Ok, risulta difficile associare un termine sì flautato ad uno scalcinatissimo manipolo di tardo adolescenti (o adolescenti tardi, fate voi) dedito a tutta quella costellazione d’attività ricreative abitualmente bollata come “condotta sociopatica”; eppure chiunque abbia ascoltato gli esordi discografici dei pestiferi sbarbatelli d’Atlanta non potrà che concordare con me quando dico che quel “flower punk” era tanto più immacolato quanto più sordido, allucinato, asprigno e corrosivo. Immaginate un GG Allin capellone.

Bene, se ci siete riusciti, immaginatelo dimenarsi nudo su un pratino verdeggiante dopo aver assunto dosi pachidermiche di lsd tagliato con stricnina… il primo impatto con “black lips!” era più o meno analogo. Roba da innescare una “reazione psicotica” in chiunque non avesse la pellaccia temprata da tonnellate di melmoso garage-punk old school.

Da quel 2003 di alcol sotto i ponti ne è passato parecchio: ben  6 i dischi pubblicati (tra cui il delirante live in terra messicana “Los Valientes del Mundo Nuevo”), una vagonata di canzoni non tutte grintose e memorabili, certo, ma sempre fedeli a quel teen spirit fresco, scanzonato e strafottente che è il battito vitale del rock primigenio. L’approdo a quest’ultimo, controverso, Arabian Mountain era stato già preannunciato dal precedente e interlocutorio 200 Million Thousand, un disco che ampliava la rosa di influenze della band strizzando l’occhio a soluzioni meno acide ed incompromissorie. I detrattori vi diranno che i Black Lips sono cambiati, che si sono parzialmente svenduti, che la scelta in sede di produzione del fighetto frangiamunito Mark Ronson – famoso o meglio famigerato per le sue collaborazioni patinate con Amy Winehouse, Christina Aguileira e i Duran Duran – ha snaturato irreparabilmente le asperità del loro sound, ma voi non credeteci. D’accordo, tutto si è fatto più pulito, più cesellato, meno lo-fi, e non c’è nulla di paragonabile alle sbrodolate beefearthiane di “Down and Out” o alla lascivia dionisiaca di “Stranger” (forse la canzone più alcolica sulla feccia della terra), ma questi sono dettagli, datemi retta. Se è vero, infatti, che l’afrore sudaticcio di bettola sovraffolata e intrisa di vodka barra umori sessuali è evaporato durante la transizione alla maturità, resta il fatto, indiscutibile, che il candore di cui parlavo poc’anzi si è conservato perfettamente intonso.

Arabian Mountain è il disco che segna il debutto in società dei nostri amabili teppistelli, ma col contegno beffardo di chi si presenta agghindato di tutto punto ad un lussuoso party mondano e poi, non visto, ti piscia nel ponce e insidia la figliola perbene del padrone di casa. Ognuna delle 16 canzoni che compongono il platter è quasi un omaggio calligrafico a 40 anni di rock viscerale e genuino: punk pop (Bone Marrow, Raw Meat, New Direction, incalzata da un clapping gigionesco), garage d’antan (Family Tree, Bicentennial Man Modern Art, con impercettibili tintinnii di xilofono), merseybeat (Dumpster Dive, Time), psychobilly (Mad Dog, da segnalare per il gustosissimo sax randagio), jingle jangle (Spidey’s Curse), folk rock (l’ombrosa ballad The Lie). Qualcuno potrebbe lamentare, con tali premesse, un’omogeneità fin troppo marcata e alla lunga stancante o una certa furberia revivalistica connaturata alla natura stessa dell’operazione, ma a voler esser schietti, pochissime band odierne possono fregiarsi di tanta maestria  nello scodellare una sfilza enciclopedica di potenziali singoli (in bilico tra Mouse & the Traps e ClashRolling Stones e Brian Jonestown Massacre, Beach Boys e Ramones) senza sembianze stucchevoli o anacronistiche.

Diciamolo pure: Questo è il disco dei Black Lips più riuscito dai tempi di Let it Bloom e farà la felicità di tutti coloro che amano un certo tipo di sonorità “vintage” o il semplice pop (nell’accezione più ampia del termine) profumato di cantina riverniciata.