Shabazz Palaces – Black Up

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Luglio 2011 Sub Pop ShabazzPalaces.com

Sembra che il 2011 sia l’anno in cui l’avant-rap, o comunque l’hip-hop più astratto, voglia tornare nero. Dopo la meteora cLOUDDEAD con i suoi figliocci, ma anche Kill The Vultures ed El-P, forse finita la carica intelletualizzante di certi ambienti ecco che quest’anno spuntano i selvaggi Death Grips di Exmilitary ed ora la Sub Pop fa uscire il suo primo album rap con Shabazz Palaces. Al centro del progetto però non c’è un ragazzino, ma Palaceer Lazaro aka il newyorkese Ishmael “Butterfly” Butler già nei Digable Planets, che negli anni ’90 portarono avanti un loro sofisticato ed innovativo rap impastato di jazz, spesso al livello degli A Tribe Called Quest. Insieme a lui il multistrumentista Tendai Maraire, che sarebbe sconosciuto se non fosse il figlio di Dumisane Maraire, il più grande maestro di mbira, il thumb piano tradizionale africano, usato anche nel brano An Echo From The Hosts That Profess Infinitum.

Prendiamo questi due spunti autobiografici, come potrebbero essere infiniti altri possibili, per provare a raccontare la musica degli Shabazz Palaces.

Il rap, raggiunta una sua maturità di linguaggio, ha trovato nel jazz, sin dagli anni ’90, istanze innovatrici nella direzione di una immersione nelle radici liberatrici della musica afroamericana. Ma rispetto alle direzioni dell’ hip-hop massimalista ormai idm-oriented, come Flying Lotus, fortemente influenzato da modelli come Sun Ra e la fase free di Coltrane, qui gli Shabazz Palaces, preferiscono far ricorso ad un hard-bop grattugiato fino a disvelare le sue vene blues. Ne viene fuori un hip-hop oscuro e nebuloso, appena screziato da rigagnoli melodici, asciugato da ogni divagazione cosmica. Il cielo notturno degli Shabazz Palaces non è lo sfondo di un paesaggio astrale, ma, accese sporadiche stelle, echi r&b e lampi di synth che sembrano lontani, si confonde con l’oscurità tout court, come in una notte fonda africana, in balìa di suoni nemici. Brani ectoplasmici come la succitata An Echo… , una Are You Can You Were You (Felt) in pieno stile Anticon con un’ossessivo beat di piano e tastiere in progressioni fiatistiche, o lo smooth jazz fatto a brandelli di Endeavors For Never, fino allo scrosciare di catene in Yeah You, brano viscerale di minimal d’assalto, raccontano di una ricerca ancestrale più che futuristica di blackness tutta nuova.

Un album che rischia di perdere moltissimo, decisamente troppo – e qui forse è il suo limite – , con ascolti distratti al computer o in macchina, non ha fame di voi, non s’incastra nel traffico che ci gira attorno, ma, se gli concedete un ascolto in cuffia, è capace di sobillare un traffico di ombre sulle pareti del vostro soffitto.