Afterhours – Padania

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Un disco con due anime, questo Padania. Una è quella più immediata, che arriva attraverso ballate acustiche di grande intensità, forse tra le migliori prodotte ultimamente dai nostri. Costruire per distruggere ne è un esempio altissimo. Brani impossibili da ignorare al primo ascolto. L’altra anima è invece quella difficile, dadaista, noise, sghemba, dispari, folle. E questa entra al secondo, terzo, quarto ascolto, ma entra inesorabile. E vi segue la mattina con le prime linee di Fosforo e Blu, o con le curiose storture di Ci sarà una bella luce piantate tra la vostra coda dell’occhio e l’inconscio.
E poi queste due anime si fondono ancora mirabilmente in brani cangianti dotati come centauri di entrambe le nature: prova di una capacità straordinaria di dare profondità e longevità ad un album senza cadere in errore. Prova di una compattezza raggiunta e riuscita non solo nella tematica, come da titolo, ma anche nel suono, nell’ estetica, nella produzione, pur nella complessità intrinseca dell’insieme: Tommaso Colliva e gli Afterhours fanno un lavoro di fino, dotato di un marchio di talento e professionalità, in tempi di gioco al ribasso e di grande paura.
Le chitarre graffiano a dovere, gli arrangiamenti sono strepitosi, moderni, senza mezze misure e aggressivi: sentitevi l‘assolo da manicomio criminale di La tempesta è in arrivo.
E poi i testi: i riferimenti alla storia politica recente, visti dal punto di vista di una terra immaginaria o immaginata (ma nemmeno troppo) diventano metafora dell’esistere in questa epoca, di una livida sofferenza a denti stretti di portata nazionale. Non ci sono parole dirette: Manuel tocca i temi in punta di penna, alludendo più che nominando. Si ha l’impressione che abbia costantemente un groppo in gola, un nodo che non si scioglie, perso tra l’amore per la sua terra (che sta a lui come Nebraska sta a Springsteen), e l’odio per quello che rappresenta, per quello che l’hanno voluta far diventare. Ma finché c’è chi scrive parole come “due ciminiere e un campo di neve fradicia/ qui è dove sono nato e qui morirò” non dobbiamo temere. Significa che nonostante tutto, là, sotto la neve, nella gente, c’è un cuore che la demagogia, la retorica e le facili soluzioni – false, peraltro – non riescono a scalfire.

Questo album non solo è da promuovere a pieni voti, ma anche da rispettare come prova di una libertà artistica invidiabile, un regalo in un’epoca di cinghia tirata. Un album complementare a quello del Teatro Degli Orrori, con punti di vista e modalità diverse, quasi che su quella terra soffi un bisogno impellente di parlare, di comunicare un pensiero non rappresentato dai media nazionali.
E mi trovo a desiderare che questo disco venga protetto dalle recensioni critiche-per-forza, dalle polemiche da social network, dai giudizi frettolosi, dagli errori di stampa e dagli errori tipici dei nostri giorni troppo pieni di pareri, il mio compreso.
Fate una cosa: ascoltatelo voi. A lungo. Ne vale la pena.