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L’ACCUSA
P.M. Simone Dotto
Buffo come quello che gli altri pensano di noi riesca qualche volta a cambiare il modo in cui pensiamo a noi stessi. Mi perdonino i giurati il preambolo da massima Zen, ma posso assicurare che la mia dichiarazione è pertinente al caso. Perché la regola vale a maggior ragione per gli artisti, tanto più per quelli – già che di Teatro si parla – che decidono di abbattere la famosa ‘quarta parete’ e farsi plasmare dal pensiero di chi guarda dalla platea. Tu chiamalo, se vuoi, crowdsourcing.
Il sipario sul Teatro degli Orrori si apre per la prima volta cinque anni fa (mica poi tanti) con la dichiarata intenzione di proseguire un percorso che affondava le radici nel noise rock all’americana e di sposarlo con i testi in italiano. Dell’Impero delle tenebre, all’inizio, lo notano in pochi: replica in lingua dei One Dimensional Man, dicevano, chessarà mai, dicevano. Poi però qualcuno si accorge che è un progetto di spessore ‘politico’ come da un bel po’ non se ne sentono e diffonde il verbo nei posti giusti. L’attesa per un secondo atto si fa alta, e in alto mira A Sangue Freddo, tra preghiere laiche e declamazioni letterarie, Carmelo Bene e Ken Saro Wiwa. E allora via al dibattito, ai reading, alle pontificazioni su politica, cultura e poesia. Per arrivare, inevitabilmente, al proverbiale passo più lungo della gamba.
Perché, beninteso, che dopo quarant’anni di dieta a base di Shellac e Jesus Lizard si abbia voglia di prendere in mano un Majkaovskij, Pasolini o i copioni di Artaud, è cosa buona e giusta, una boccata d’aria fresca nell’ambiente sempre un po’ autoreferenziale del nostro rock alternativo. Ma dal saper leggere e apprezzare Gli scritti corsari al saper “scrivere corsaro” a propria volta, ce ne passa. Ed è un po’ la pia illusione dell’utente 2.0, che da quando ha tutto a portata di mano pensa di poter mettere mano a tutto: nel suo Il Mondo Nuovo il gruppo veneto ha voluto mettere proprio un po’ di tutto, l’ispirazione de-andreiana da concept, il dramma dell’immigrazione e gli spunti di critica politico-sociale, come i nomi di Gramsci, Slavoij Zizèk e Pasolini buttati un po’ lì, come medaglie da appuntare quando poi manca dove appuntarle.
Paradossale, nei termini del web, che il risultato sia un tomone del genere, indigesto non solo per la lunghezza e gli argomenti trattati. Ancora una volta un conto è il gusto per la buona produzione e le capacità di strumentista che Giulio Ragno Favero e Gionata Mirai confermano oltre ogni dubbio, altro è dover correre dietro a più di un’ora di un Capovilla che, come sempre, più che cantare, declama. Tutti i trucchi tornano buoni, arpeggi acustici e inserti elettronici: quando va bene viene fuori una Io cerco te, o Gli Stati Uniti d’Africa. Quando va male (e va male quasi sempre lungo queste sedici tracce) il risultato è un’ammucchiata tipo Cuore D’Oceano, con Caparezza, Aucan… tutti dentro. Non sarà casuale se anche dopo qualche ascolto uno tra i pochi episodi che ti si fissano in testa è Doris, versione italiana dell’omonimo brano degli Shellac. Già gli Shellac che cantano in italiano: ma non era proprio da qui che eravamo partiti?
LA DIFESA
Avv. Emanuele Binelli
Dico a te, sì a te, a te che stai lì seduto in giuria, tu che forse non hai mai creduto in niente. Sei stato scelto per parlare e giudicare questo disco, lo puoi fare, ne hai i mezzi e la facoltà. Tu non ci crederai, ma questo disco ha voglia di parlare con te.
Questo disco sta tentando, nella maniera più strenua, e contro ogni previsione, di veicolare dei contenuti in un momento storico in cui tutto quello che ci va davvero di ascoltare è una musica che lenisce i problemi che già abbiamo, non quella che ne solleva di altri. Che palle dirai. Non fosse che è proprio quando si comincia a pensare che i contenuti siano ignobili pretesti, e che l’esercizio intellettuale sia una colpevole perdita di tempo per fortunati tromboni privilegiati, è proprio allora che il controllo del potere si fa più ferreo, e il cielo più plumbeo.
E non è detto che questo disco non ti capisca, ti capisce, eccome, quando torni stanco a casa dal lavoro. Però insomma, ora che può parlare a tante persone si sente investito oggi più che mai di una missione, ed ha deciso di deporre per una volta il bicchiere, e di vestire l’armatura.
Potrebbe rischiare di farci scoprire chi sia Henry Okah o che gli Stati Uniti d’Africa non è solo un divertente gioco di parole. Oppure magari chiedendoci chi sia questo Martino, potrebbe farci venire voglia di sapere che è il personaggio liberamente tratto da una poesia di Sergej Esenin, chiamata “Il compagno”. Oppure ancora scoprire quale sia la storia vera di Ion Cazacu. più vera del vero. O ancora farci riprendere gli Shellac, e magari proprio quel pezzo, quel pezzo di cui Doris è una versione riveduta e corretta. Potrebbe permetterci di leggere Cerco Te, la quasi title-track di questo album, alla luce di un romanzo dal titolo Il Mondo Nuovo, il romanzo distopico di Huxley. Ed in un colpo farci balenare nella testa che stia parlando delle metropoli, dello spaesamento e dell’omologazione nel caos della civiltà di massa, e dell’importanza vitale di preservare le differenze, i sentimenti, l’umano.
E voglio proprio ripartire da Doris per dire una cosa. Benché Doris degli Shellac sia più dura e ruvida della versione del Teatro, tuttavia Doris del Teatro è la prima canzone-bandiera per i precari, per i disoccupati, per chi si è laureato e deve trovarsi ad avere un lavoro (che ormai sembra solo retorica dire che è un diritto costituzionale) come sogno proibito. Ed è dura negli intenti. Ma chi gliela dà una bandiera a questi qui, di sti tempi? I politici? No, “I politici, crepano”, e giuro che lo dicono gli Shellac nella versione originale.
Ma soprattutto, più di ogni altra cosa, mi preme puntare il dito sull’argomento centrale di questo disco. Un concept sull’immigrazione. Oddio, che palle, vi sento forte e chiaro.
Ma ditemi una cosa. Quale altro argomento mette il dito nella piaga della società italiana più di quello. Noi che andiamo a vedere The Help e deridiamo quelle stupide donnette americane yankee e razziste che maltrattano le povere colf nere, ma poi, alla prova dei fatti siamo esattamente come loro, ciechi e sordi alle esigenze e ai sentimenti dei più deboli. Perché questo disco ha da dirvi due o tre cose sull’argomento: per prima cosa, l’emigrazione è una cosa che strappa il cuore a chi la fa, lacera i rapporti umani. Sentitelo quel lavoratore dell’est che cerca di convincere sua moglie lontana, per farla stare tranquilla, che Marghera è molto, ma molto più bella di Skopje. Ma ce l’avete presente Marghera?
Apprendo che invece Skopje (fonte wikipedia eh, mica serve andare tanto lontano) è la capitale della Repubblica di Macedonia, una bella città storica, anche sede di un’università. E poi il brano, una telefonata, indaga i danni collaterali, la figlia che soffre in maniera livida e sorda la lontananza del padre, come solo un’adolescente sa fare. E il tutto in un discorso diretto, un film: un immigrato, operaio di Marghera, verso le sei di pomeriggio, forse a fine turno, telefona alla moglie col cellulare, guardando la laguna che si infiamma. Ora io non mi ero mai posto il problema di quel tipo di lontananza. Però tutti quanti conosciamo la lontananza. Tutti quanti rivendichiamo il diritto ad amare, ad avere chi vogliamo e quello che vogliamo. Ma a volte non possiamo essere dove vorremmo, perché dobbiamo stare lì, al nostro posto, perché la nostra vita è più importante dei nostri stessi sentimenti. Come quella di Pablo, che lavora miseramente per garantire un futuro, dall’Italia, a un nipotino che nemmeno conosce. A volte è invece quello che vogliamo ardentemente che ci risulta fatale. Come la storia di Cuore D’Oceano, che è una storia di immigrati di altri tempi, di quando noi per andare a New York saremmo stati disposti a gettarci da una nave e nuotare, finendo per ingoiare alghe e sabbia. Perché a vent’anni, che tu sia bianco o nero, hai una foga di vivere per la quale non tiene miseria, sfortuna, disoccupazione, paura: niente e nessuno ti ferma. Però il mare sì che ti ferma. E tanti ne ha fermati, ultimamente anche al largo delle nostre coste. Ed è uno dei messaggi inclusivi sui quali questo disco punta: siamo tutti accomunati nel tentativo di farcela, di sopravvivere, siamo tutti simili, abbiamo tutti lo stesso desiderio di felicità.
E chi ascoltando i versi di Non vedo l’ora “Un paese che non gode ormai di fortuna alcuna, nessuna” non ha anche un po’ pensato all’Italia? E magari alle parole di quell’amico che decide di cercare una vita migliore a Londra “Non vedo l’ora di respirare l’aria di Londra e quell’odore di underground, e toccarti di nascosto, ti ha sempre fatto ridere e quando ridi, io non vedo l’ora”, e di portarsi dietro un metaforico sorriso di madre “Anche se a dire il vero ho visto nei suoi occhi solo un gran paura”, quanti di noi hanno visto i propri genitori preoccupati per la nostra sorte, il nostro futuro. E qui vengo al punto: parlare di immigrazione, o di altre questioni sociali senza essere retorici si può, e lo si fa partendo da quella cosa che accomuna tutti gli umani, un linguaggio universale: i sentimenti. Ed era una cosa che faceva De André. Ed ora lo fanno loro, magari non con gli stessi risultati altissimi, ma con le stesse procedure. E lo fanno con un linguaggio e una musica che della modernità ha il suono, e soprattutto la capacità di essere intertestuale come Internet, di suggerirti rimandi continui ad altro, che sta a te sviluppare. Di spingerti a completarlo tu il quadro, a farti parte integrante del messaggio. Perché hanno voglia di parlare con te. E se questo è il “commerciale”, la punta dell’iceberg del rock italiano conclamato, beh io non so voi, ma io ci metto la firma.
p.s. In calce vogliamo segnalare che è uscito il libro fotografico del nostro amico e collaboratore Daniele Leonardo Bianchi, che racconta il gruppo tra tour, backstage dall’Impero delle Tenebre fino ai preparativi del nuovo tour. Lo potete acquistare in tutte le date del tour, e tra pochissimo anche attraverso il sito di Daniele – www.concertinalive.it