Tune-Yards @ Hiroshima Mon Amour (Torino) – 02/03/2012

ATTITUDINE E VISUAL: Father Murphy: Lento cammino di purificazione psichedelica in una coltre impenetrabile simil drone, sbalzi d’umore ed allucinazioni noise, umori pop rigurgitati, sacrifici necessari lungo la via della Rivelazione. Una proposta come quella di Padre Murphy, che poco o nulla ha da spartire con l’ortodossia musicale, trova sicuramente più d’una difficoltà ad affermarsi in suolo italico. Coltivate con mistica irrazionalità in seno a MadCap Collective e Aagoo Records, le litanie lisergiche di Freddy, Gvitron e Chiara Lee, avrebbero di che discutere nel Bar La Muerte, l’ormai ex-etichetta dedita alla sperimentazione di Bruno Dorella (due fervidi immaginari quelli dietro ai F.M. e agli OvO di Dorella). L’ipnotica performance del trio mette in luce ormai consolidate qualità: tremori vocali tra il gracchiante ed il tenorile si stendono su un tappeto synth-etico forse poco aiutato dai watt a disposizione, cigolii di chitarra dal sottoscala impolverato verso l’Apocalisse terrena, ma soprattutto una machiavellica sezione ritmica fatta di frustate improvvise e grappoli di bacchette a (non)svelare scricchiolii sinistri da universi paralleli. Scarnificazione necessaria, alla ricerca della Verità personale. Musica squisita per pochi adepti potrebbe diventare musica inquisitoria per pubblico curioso. L’accostamento con Tune-Yards è spiazzante su più livelli: la mortifera atmosfera di Padre Murphy poco ci azzecca con la gioiosa pulsione vitale della musicista canadese ma il contrasto musico-umorale tra poli opposti declinati in versione lo-fi desta comunque piacevole interesse.

Archiviato il live dei Father Murphy è tempo di colorarsi il viso, togliersi le scarpe e perdersi nel mondo di Merill Garbus, sguazzare nelle stratificazioni sonore di Tune-Yards. Nato come progetto individuale, portato avanti con strumenti di fortuna in un appartamentino nei pressi di Montreal, t-y è ora un micro-cosmo orchestrale: “mamma” Merill a picchiare sui tamburi e dar sfogo all’ugola “negra”, l’amico-collega di vecchia data Nate al basso, Matt Nelson e Kasey Knudsen ai sassofoni, tutti rigorosamente muniti di fascia colorata in testa. La Garbus pare una matrona africana in un corpo canadese, niente scarpe ed una spessa linea gialla a segnarle il profilo lungo le guance. Occhi vispi e sorriso contagioso: vien voglia di abbracciarla!

AUDIO: Alla vigilia ci si chiedeva: riuscirà uno dei dischi più acclamati del 2011 a rendere altrettanto bene dal vivo?
Riuscirà la voce ad essere così nitida, potente, comunicativa lontana dalla studio di registrazione? E le percussioni a risultare così maledettamente enfatiche? Riusciranno le stratificazioni di layer a non farsi accozzaglia e ritornare al mittente nella loro squisita preziosità? Ebbene sì, sound impeccabile, preciso ma avvolgente come attorno al falò d’un tribù kenyota. Complimenti a musicisti e tecnici.

PUBBLICO: Un po’ me lo aspettavo. In Italia, per ora, il pubblico di tune-yards è prevalentemente quello degli “addetti ai lavori”. Troppo ricercato il suo (pur) pop per farle guadagnare fama mainstream dopo due sole prove in studio. La sala Majakovskij non è piena, e non è per i 15 euri del biglietto, ma perché la proposta musicale, un “pop etnico” dalla prospettiva globale ed un appeal irresistibile, non ha però avuto ancora i giusti canali di esposizione mediatica. Menomale che chi c’è, fortunatamente ed inevitabilmente, è davvero estasiato.

SETLIST: WHOKILL. E già non ci sarebbe da aggiungere altro. Le incursioni nell’esordio Bird-brains fanno il resto. Il parterre “diradato” si sa, rendo tutto un po’ più “timido”, ma in futuro con queste canzoni ci sarà davvero da ballare.

LOCURA: “scusate sapete che ore sono? È già passata la Mezzanotte? Perché è il mio compleanno!” così tune-yards festeggia i suoi anni on stage, tra gli applausi e lo stupore del pubblico intenerito dalle parole della Garbus, contenta di “share my birthday with you”. Quando alla fine di un concerto strepitoso parte spontaneo ed unanime il coretto “Happy Birthday” la giovane sul palco è incredula e i suoi occhi si illuminano quando dal backstage esce una “torta” molto particolare, composta da frutta (una mela, un’arancia) con delle stelle filanti a mò di candeline! Per questo ed altro, ci sono concerti che rimangono nel cuore più di altri. Tra quarant’anni pensare di aver assistito al “primo live in Italia” della signorina Merril Garbus (che spero-credo nel frattempo si sia affermata su scala mondiale) unito al ricordo delle scintille di quei candelotti incastonati nella frutta, penso mi strapperà più d’un sorriso.

CONCLUSIONI: Altro che 80 giorni, questo è il giro del mondo in un’ora e mezza! Dalla neve osservata dalla finestra d’una cameretta in Canada alle tende appuntite della tribù Wagogo in Tanzania, dalle spiagge californiane alle aree post-industriali di Torino, dai cafè più pittoreschi di Montreal ai tour internazionali. In principio c’era una ragazza “senza un basso”, armata di ukulele e con una cascata di loop che le ronzavano in testa come uccellini. Ora c’è quella stessa identica ragazza, cittadina musicale del mondo, magnetica, viscerale e capace di creare una suggestione tutta teatrale, tutto mantenendo il candore retrò di chi vive il mondo per la prima volta e regala una performance sincera e meravigliosa. La differenza è che ora il mondo si è accorto di lei. Che bello.