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20 Agosto 2012 | Text Records | FourTet | ![]() |
Nell’ analizzare l’ultima opera targata Kieran Hebden (Four Tet) non si può prescindere dall’ esaminare la complessa psicologia dell’autore. Considerato fra i personaggi chiave dell’ elettronica di matrice anni ’00,
Four Tet vede come tratti dominanti della sua personalità curiosità e imprevedibilità. L’animale che si porta dentro non lo fa vivere felice mai, direbbe un noto cantautore italiano, lo rende schiavo delle sue passioni.
Tutto ciò si risolve nell’incapacità di stare fermi, nel rifiuto di arroccarsi dentro un sound definibile “proprio”, un compromesso, questo, che ha fatto la fortuna di molti artisti ma non quella di Kieran. I suoi lavori sono il frutto della volontà di far convivere interessi in continua evolozione, dal post-rock, primo amore, passando fra Jazz, fusion, musica etnica, IDM, fino ai recenti flirt con la dance e con il mondo dei club. Questo nuovo capitolo non diventerà una pietra miliare come Rounds nè svolgerà quel ruolo di spartiacque fra vecchio e nuovo decennio esercitato dal precedente There is love in you, mancano pezzi del valore di Angel Echoes ed un ep preparatorio come fu Ringer. Non è il punto più alto della carriera di Kieran ma è certamente un riassunto coerente ed intenso delle sue passioni, sintesi di sintesi passate.
Ascoltando 128 Harps, troverete strumenti a corda campionati, vero marchio di fabbrica del primo Four tet, sovrapposti ad un repeat vocale che ci riporta alla sua ultima infatuazione: i club.
Se ancora non vi avessi convinto, potete prendere come esempio della sopracitata imprevidibilità fourtettiana un pezzo come Jupiter. Il brano si apre con un giro di synth che sembra composto da Bradford Cox, poi al minuto 1:50 ci sono quei 4 secondi di silenzio nei quali chiunque conosca il personaggio Hebden scommetterebbe sul successivo stravolgimento di quanto fatto in precedenza. Così, non appena il silenzio si esaurirà, sostituito da un ipnotico loop mimimalista, potrete sogghignare pensando: “Lo sapevo”.
Chi sperava nella possibilità di bissare l’album precedente rimarrà deluso. Probabilmente però, le intenzioni, in quest’occasione, erano altre. Il disco infatti può essere letto come un messaggio diretto a chi da tempo cerca di incasellare Four tet in un determinato genere, assegnandogli, ad ogni sua svolta, l’etichetta di turno, inventando di volta in volta nuovi termini (vedi Folktronica, post-IDM ecc.). Un messagio chiaro e tondo che dice: “Non ci provate, è tempo sprecato”.