Intervista a Jason Lytle: In a Lytle world

Avvertenza ai lettori. Non fatevi ingannare dalla sua aria svagata, dai testi un po’ naif e da quell’immaginario da “piccole cose di pessimo gusto” che fa tanto ragazzino smarrito. Millantando di lavorare per il Dipartimento della Sparizione, Jason Lytle nasconde ancora una volta la sua “altra” natura: che è quella di un creativo sì, ma ben consapevole degli aspetti più concreti, se non materiali, del proprio ruolo. Così, proprio quando dice che scompare, in realtà riappare e in più di una veste: come titolare di un nuovo album solista (Dept of Disappearence, appunto) e da leader dei redivivi Grandaddy con i quali – anche dopo aver a più riprese affermato orgogliosamente “la band c’est moi” – è tornato a suonare la scorsa primavera per una serie di date tra nuovo e vecchio continente. Anche questi gli argomenti della nostra chiacchierata, che travalica l’oceano e raggiunge direttamente la voce di un Jason apparentemente un po’ assonnata eppure lucida nel declinare i concetti che gli stanno a cuore. A riconferma delle sue due facce, sono working e feeling le due parole che tornano più spesso lungo il discorso.

Già nel 2009, all’uscita del tuo primo solista Yours Truly the commuter, avevi annunciato che il successivo sarebbe stato un lavoro più “caotico e radicale”. A cose fatte, resti ancora di quell’idea?
Sì, in un primo momento credo di aver sperato sul serio che sarebbe stato qualcosa di più folle e movimentato, ma, sai com’è…da un certo punto in poi le canzoni hanno iniziato a scriversi da sole e io non ho avuto più alcun controllo, erano loro a dirmi cosa fare. Così ho cambiato i miei piani.

Ma c’è una differenza sensibile tra i due album o li consideri più l’uno il proseguimento dell’altro?
La differenza principale che penso di aver notato sta nel modo di scrivere le canzoni. Ho cercato di prendere le distanze dai testi che riguardano soltanto me stesso e di non essere più così “esplicitamente introspettivo” come nell’altro disco. Sono tornato a uno stile metaforico, più libero e immaginativo. Questa volta non ero tanto interessato a cantare di me, non per via diretta.

Allora è dai testi che parti per comporre un brano?
No, il mio primo obiettivo è lavorare su una musica che possieda un proprio carattere. Subito dopo riapro un paio di scatoloni dove da anni conservo ritagli di giornale. Certe volte a ispirarmi è il tema degli articoli, altre una singola frase. Una volta che ho creato un brano di cui sono davvero soddisfatto mi metto a scoperchiare queste scatole e provo diverse combinazioni, finchè non ne trovo una che mi convince e mi fa dire “sì, è questo che deve succedere”, il che solitamente aumenta il mio entusiasmo. Da quel momento mi metto a lavorare duro sulla canzone, a rifinire tutti i dettagli. Ma la vera sfida sta tutta nel primo passo, e non sempre si riesce a vincerla: una volta trovata la giusta combinazione, però, tutto il resto viene di conseguenza.

Nel video del primo singolo, Your Final Setting Sun, si vede questa setta di fanatici antitecnologia mentre buttano alle fiamme computer e televisioni che replicano la tua immagine. Divertente, considerando che hai più volte dichiarato di scrivere le canzoni tutto da solo, con l’aiuto del pc. Consideri quelli tecnologici come  strumenti di composizione?
Non proprio. Di solito preferisco partire registrando le tracce di batteria su nastro per poi trasferirle su computer: ormai ho un bell’archivo di suoni ricavati in analogico che però riprendo direttamente dall’hard disk, per cui, direi, uso un giusto equilibrio fra analogico e digitale. In genere però, trovo sia meglio non porsi troppe regole in queste cose. Le mie convinzioni riguardano tutte il suono e il ‘feeling’: qualsiasi strumento ci voglia per raggiungere un certo tipo di sound o rievocare un particolare modo di sentire a me va bene, non dovrebbero davvero esserci preclusioni. Anche lavorare coi computer mi piace molto – almeno fino a quando funzionano: se cominciano a dare problemi avrei voglia di passarci sopra col furgone. Se però tutto fila liscio non rappresentano altro che uno strumento, esattamente come una chitarra. Per la tecnologia in musica vale più o meno lo stesso discorso che si fa con i soldi, quando senti dire che “il denaro è il demonio”. Non è il demonio se lo liberi dalla superstizione di forze mistiche o malefiche, allora anche quello diventerà uno strumento, con l’unico potere di servire perfettamente il tuo scopo.

All’estremo opposto rispetto all’uso di files e software, c’è una novità, almeno per noi che ascoltiamo. Il tuo amore per la musica classica. Un brano di Dept. of Disappearence titola Chopin Drives Truck to the Dump e campiona un Notturno del compositore romantico.
Ascolto la musica classica, o almeno cerco di farlo il più spesso possibile. Mi serve soprattutto quando devo staccare e non mi va di pensare al lavoro o a qualcosa di serio: in quelle situazioni è di grande aiuto. Di tutti i compositori, quello che mi piace di più è senza dubbio Beethoven, ma amo molto anche Chopin, in particolare i suoi Piano Etudes. Quel che più amo di quella musica è il fatto che abbia ingaggiato una sfida contro il tempo: è un linguaggio che oggi abbiamo perduto e che non sappiamo più ricreare, tanto complesso che chi lo praticava ha dovuto lavorare duro per impararlo e poterlo offrire alle orecchie degli ascoltatori. Però a me piace ancora l’idea di una musica che faccia sentire piuttosto che pensare: se sei così fortunato a conservare intatta l’impressione originale aggiungendoci qualche parola che ci stia bene, e magari usando anche un po’ di tecnologia, come dicevamo, allora hai trovato la formula magica.

Anche guardando la copertina del nuovo album, che ti ritrae vestito da minatore, mi pare di ricordare che una  forte etica del lavoro da parte tua. Riesci a considerare quello del musicista pop come un mestiere con tutti i crismi?
E’ buffo, sai, perché ho appena scritto un articolo per Q Magazine sullo stesso argomento. E’ una lista dei dieci lavori più strani – o più schifosi – che mi sono capitati prima di fare il musicista. E’ stato divertente perché ho dovuto ricordare certe esperienze che ormai mi sembrano lontane nel tempo, ma mi ha fatto anche ripensare al mio passato…Non sono mai andato al college, da giovane ero preso dallo skateboard e dai viaggi: mi sono subito abituato a vivere una vita in libertà ma non è stato facile, dovevo lavorare e guadagnarmi i soldi per poter fare quel che volevo. Ora sono in una posizione più unica che rara, mi posso permettere di fare musica per vivere e mi sembra un mestiere troppo facile. Ogni tanto mi fa sentire un po’ in colpa.

Addirittura in colpa?
Beh, forse non proprio colpevole, ma di tanto in tanto devo ricordare a me stesso di quanto sono fortunato a fare il musicista. Certo, non è tutto uno scrivere canzoni, devi anche intrattenere relazione con altre persone e comprende perfino le pause: il modo migliore di riuscire a fare bene quel che faccio è trascorrere un po’ di tempo in giro da solo. Negli anni sono riuscito a mettere a fuoco un sistema che funziona bene su di me, quindi quando sono al lavoro cerco di mirare alla qualità, senza sprecare il mio tempo. Anche quando non sto materialmente componendo un brano, resto sintonizzato alla ricerca di idee e di ispirazione.

Arriviamo alla reunion dei Grandaddy, se ti va di parlarne…
Sì. Soltanto un po’ però. (ride…Oddio, “ride”. Sorride, ndi)

 Sei sempre stato estremamente onesto a proposito di questo, quando hai dichiarato che le canzoni della band erano soprattutto le tue, e che se vi siete sciolti è anche perché l’avventura non era stata “una grande macchina da soldi” . Ora, dove sta il motivo per riunire la band?
Allora, almeno dal mio punto di vista le canzoni dei Grandaddy sono le mie. Magari qualche volta uno degli altri mi dava una mano, o io stesso scrivevo qualcosa pensando a come l’avrebbero suonata i ragazzi, ma diciamo che potrei rifare quasi tutti i pezzi dei Grandaddy da solo e considerarli roba mia. L’idea di rimettersi insieme però è venuta a Jim (Fairchild, il chitarrista, ndi). Quando è arrivato a chiedermelo ho subito risposto: “naah, grazie tante”. Rimettere in piedi una cosa del genere solitamente richiede un bel po’ di fatica: non è solo suonare, ma anche decidere dove andare e che cosa fare, ma alla fine sono riusciti a convincermi, dicendomi che ci sarebbe stato qualcuno a darci una mano. L’obiettivo era anzitutto ritrovarci, passare insieme del tempo, fare felici un sacco di persone e per la prima volta mettere su un po’ di soldi. Prima avevamo suonato e fatto tour per anni interi, ma senza mai fare cassa. Anche se mi sembra ancora un po’ strano, questi show sono stati un vero successo, in ogni festival dove abbiamo suonato è stata una scommessa vinta per tutti: ci divertivamo sul palco, il pubblico si divertiva ad ascoltarci e alla fine venivamo pagati sul serio.

Considerando il numero di gruppi vostri coetanei che stanno tornando a suonare insieme, si direbbe quasi che andare in tour ora sia diventato paradossalmente più remunerativo rispetto a vent’anni fa.
Posso parlare per noi, e dire che in questa situazione non c’erano contratti nè case discografiche coinvolte. Avevamo il pieno controllo della situazione. In altri tempi le band venivano seguiti da persone che dicevano loro qual era la cosa giusta da fare: qualcuno lo sapeva, qualcun altro meno. A fare la differenza, stavolta, c’era che potevamo decidere qualsiasi cosa volessimo, assolutamente qualsiasi cosa. Con delle date già fissate in calendario, potevamo scegliere quanto far durare la cosa, e i posti dove andare senza dover chiedere conto a nessuno.

Quindi bilancio positivo. Tornerete in Europa prossimamente?
Alla fine è andata bene, anche se non ho grande fetta di ripetere l’esperienza. Mi piace girare da solo, senza quindici o sedici persone sempre attorno, mi piace la libertà di stare per conto mio e muovermi con i miei tempi. Con i Grandaddy poi ci siamo imbarcati  in un tour europeo già decisamente lungo, gli altri dovevano tornare al loro vero lavoro così a un certo punto abbiamo dovuto fermarci. Al momento non ci sono altri piani, la mia filosofia è partecipare solo a eventi o occasioni speciali, senza cascare nella routine della tournèe. E’ stato bello finchè è durato, ma ora vorrei soprattutto restarmene un po’ a casa.