Non è casuale il gusto per la personificazione degli oggetti, in particolare di quelli elettrici o elettronici, presente fin dagli esordi nella poetica di Jason Lytle e dei suoi Grandaddy, soprattutto se accostata al gusto per l’infantilismo e le sgrammaticature da prima elementare, in particolare in quella bestia nera di tutti i bambini americani: lo spelling (una b-side dei Grandaddy si chiamava L’inno della natura, dove nature era scritto nacher). Non è casuale perché riconduce Jason Lytle alle radici della sua ispirazione, e della sua storia personale: un geek o computer nerd anni 80-90 (quando essere nerd era davvero brutto), di un’adolescenza persistente, persino alla soglia dei 40, infilato nella sua stanzetta a suonare e registrare brani, infilando cavi e cavetti, coltivando passioni assolutamente out, come quella per la montagna, la natura, la vita all’aria aperta. Non è casuale che il suo primo disco solista si intitoli “Yours Truly, the Commuter”, che da noi suonerebbe come il commiato di una lettera firmata “il Pendolare” (commuter appunto) e suonerebbe pertanto “con affetto, il pendolare”, che in italiano funziona molto, molto peggio, se si considera che in traduzione va persa tutta l’essenza che lega a doppio filo questo titolo all’immaginario collettivo grandaddiano: l’assonanza tra commuter e computer, così come il rimando analogico a commutator (il commutatore). Così, in sottotraccia, e quasi inconsciamente, abbiamo una letterina firmata da un computer, un po’ pendolare, e un po’ commutatore. E sul piano reale abbiamo invece la dichiarazione di una distanza, dal mondo, dalle cose, dalla seppur piccola fama del gruppo, una lettera firmata dal Montana, in mezzo alla natura incontaminata (et voila) dove il pendolare, uomo solo per definizione (ma attenzione di una solitudine mediocre, democratica, non una posa teatrale) si è rifugiato per stare tranquillo, per ritornare da dove era venuto e forse anche zoppicando (i may be limping), “but i’m coming home”. Così recita l’apertura melodica della prima traccia dell’ album, che ne è anche la title-track: un commiato in prima battuta, ma anche un nuovo inizio.
Dov’è andato il gatto di famiglia? “what happened to the fambly cat” si chiedeva l’adorabile voce sconsolata di una bimba in apertura dell’ultimo disco collettivo dei Grandaddy (e si noti, ancora una volta, la sgrammaticatura, per family). Il gatto di famiglia era uno dei numerosi alter ego di Jason Lytle, che da molte delle tracce di quel lavoro chiedeva tregua, dichiarava la sua voglia di evadere e di perdersi come uno stray cat (where i’m anymore, ma dov’è che sono più?): un gatto randagio. Ed ora semplicemente lo ha fatto, gettando sul presente album “da solo” il crisma di una rara sincerità di intenti, oltre che la consapevolezza di una svolta necessaria, ineluttabile e serena. Ed ora lo vediamo accompagnarsi con qualcuno in una terra abbandonata e spazzata dalle perturbazioni (Brand New Sun), aggrappandosi ad un ramo rotto, con una mano bruciata dal sole e poi crollare sfinito sopra un sacco a pelo, dove “my back is bad” (la mia schiena è ridotta male) suona in assonanza con “sleeping bag” (il sacco a pelo), a rimarcare ancora una volta la centralità della poesia delle piccole cose nell’orizzonte immaginativo del nostro. E non mi pare fuori luogo allora permettermi di tradurre questo stralcio di disco:
Track 3 Ghost of My Old Dog (Il fantasma del cane che avevo una volta)
And she would know
E lei lo dovrebbe sapere
For it was she
Perché è stata lei
Who said that i
A dire
I Looked happy
Che io sembravo felice
In the photos
Nelle foto
Where I would pose
In cui stavo
With the pets that I once had
Con gli animali domestici che avevo un tempo
But they’re all gone now
Ma ora sono tutti andati
To an earthen bed
Al loro giaciglio di terra (in un giaciglio di pietra)Don’t yell at me, cause you can’t see
Non urlarmi se non riesci a capire
Who am I thinking of
A chi io stia pensando
You act as if you’ve caught me with
Ti comporti come se mi avessi beccato con
Someone I used to love
Con qualcuna di cui ero innamorato
Well I guess you caught me
Beh allora penso che tu ci abbia preso
But you won’t stop me
Ma non mi impedirai
And I will never have enough
E non ne avrò mai abbastanza
I’m only talking!
Perché sto solo parlando
I’m only laughing!
Sto solo ridendo
With the ghost of my old dog!
Col fantasma del mio vecchio cane
Nient’altro da aggiungere. Questo è puro Jason Lytle.
O In Birds Encouraged Him (splendido capolavoro melodico di bellezza a bassa intensità) dove l’autore si costruisce attorno l’ennesimo alter ego: un bambino che si perde dentro un buco, dentro il quale si è nascosto per non saperne più del mondo o di vivere o invecchiare e morire. E allora saranno gli uccelli ad incoraggiarlo con il loro canto nel refrain “Why oh why, why don’t even try” (perché, oh perché non ci provi almeno) “Why oh why oh why? Just one more night” (perché, perché… almeno un’altra notte), dove la reiterazione del “why oh why” ricorda proprio in maniera onomatopeica il cinguettio semplice e reiterato degli uccelli selvatici.
O ancora intitolare una canzone accorata e lieve, su una perdita, evidentemente di una persona cara, con
“This Song Is the Mute Button” (questa canzone è il pulsante mute).
Una foto di te in una cornice
E no… non dirò il tuo nome
Sola in mezzo all’ombra di un albero
Mentre agiti la mano come fosse un addio
E pensare che io vedo il bello nelle cose
Ma tu sei scomparsa come in un sogno
Mi piacerebbe poter ridere ora
Ma non ti vedrò piùMi piacerebbe poter ridere
Ma non ti rivedrò più
E in Rolling Home Alone (da solo sulla strada di casa), dove un testo leggero sulla condizione di solitudine cercata, ed i dubbi che essa può suscitare, viene incorniciato dall’assolo distorto mono-nota più lungo e lieve del mondo.
Ed in conclusione la certezza di essere Here for Good (qui starò bene), ed una certezza per noi: che quello che troviamo qui è il Jason Lytle a cui siamo più affezionati, il più accorato, solitario, semplice, geniale e sincero songwriter dell’indie anni novanta, oltre che il più bizzarro e gentile essere umano di sempre. O forse un androide, più umano dell’umano. Ma comunque sempre Infinitamente vostro, il pendolare.