British Sea Power – Machineries of Joy

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Fanno esattamente dieci anni da quando i British Sea Power esordirono. E un decennio sulle spalle pesa. In tutto questo tempo ci si misura con nuove frontiere stilistiche, ci si butta a terra e ci si rialza di fronte ai vari passi falsi, e ci si sente orgogliosi anche dei più piccoli riconoscimenti. Una volta arrivati alla meta, tra inciampi e sgambetti ostacolanti, si tirano un po’ le somme di tutte le esperienze passate. Ed è per questo che il nuovo Machineries of Joy non ha senso nella sua singolarità. A tutti gli effetti è un disco vario, che si diverte a spaziare tra universi paralleli; ma non lo fa per motivazioni di eclettismo ostentato. Si ritrova, nel disco qui analizzato, in una maniera sorprendentemente giocosa e autoanalitica, quel senso di collettività eterogenea che fa da capo ai vari Greatest Hits autocelebrativi delle altrettanto varie band da un passato corposo e un presente – nella maggior parte dei casi – corroso.

Quando si ascolta un disco del genere, la prima impressione è sempre quella di avere a che fare con un’accozzaglia stilistica indefinita (marchio di fabbrica dei British Sea Power certo), invece, qui, addentrandosi piano piano nei vari pezzi e nei vari livelli compositivi, si scorge una linearità musicale sorprendente. È per questo che il primo pezzo, omonimo, Marchineries of Joy – tra tratti stilistici retrò alla Strokes e  musicalità più rock alla dEUS –  si lega in maniera spiazzante a Spring Has Sprung che al ritornello fa partire inconsciamente Common People dei Pulp. Passando per momenti un po’ sottotono – veramente pochi – come K Hole, e altri invece di grandi pseudo-rivisitazioni personali e non, si crea una perfetta commistura musicale tutt’altro che disorientante. Non ci posso far niente se When A Warm Wind Blows Through The Grass mi fa pensare a Avatar degli Swans, senza le gloriose pulsioni onanistiche da segaioli avant-rock attempati; ma un po’ Machineries of Joy rappresenta anche questo: il gioco stilistico, la libertà compositiva e la libera interpretazione.

Tra situazioni oniriche, strutturate su violini e cadenze tipicamente pop (Hail Holy Queen), ci si imbatte invece in pezzi molto più scanzonati ma comunque riuscitissimi che terminano in esplosioni nonsense dal carattere postpunk e dal sapore grezzo (Loving Animals), che portano al disco una coloritura cristallina e variegata degna di attenzione. Un disco “caldo e ricostituente” – come lo definì la stessa band – che sorprenderà  quelli che si avvicinano timorosi per la prima volta alla sonorità di questo gruppo, e regalerà sicurezza e stabilità ai fan, ormai veterani. Non fatevi spaventare dall’orso bianco sulla copertina, non morde. Anzi.