Björk – Vulnicura

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“Parla di ciò che potrebbe accadere a una persona alla fine di una relazione, di dialoghi che possiamo avere nelle nostre teste e nei nostri cuori e dei processi di guarigione”.

Björk

 

Guarire dalle lacerazioni della vita, da quei tagli spesso profondi causati dall’esistenza, per riuscire a trovare una via di fuga dal dolore: Vulnicura è tutto questo. È un amalgama di parole latine, “vulnus” (“ferita”) e “cura”, che pulsano e fluttuano incessantemente durante tutta la durata dell’album. È così che Bjork, anticipando l’uscita del disco di alcuni mesi per via di un leak comparso in rete, apre le porte del suo mondo, quello più umano, privato e vulnerabile. Allontanandosi dall’immagine simbolica, troppo spesso stereotipata dai media, di elfo stravagante e di sovrannaturale creatura dei ghiacci, l’artista islandese dialoga con sé stessa, aprendo un varco sulla fine della sua relazione con Matthew Barney.

Il sound del disco, solo all’apparenza più immediato e accessibile del precedente Biophilia, cela la forza straziante e prorompente dei testi; si tratta di melodie spesso lineari, cariche di poesia e lirismo implementate dall’ultizzo degli archi, curati dalla stessa Björk. Un’elettronica latente bisbiglia sottovoce tra le corde degli strumenti e quelle dell’anima.

Vulnicura, composto assieme al producer venezuelano Alejandro “Arca” Ghersi, con il contributo ingegneristico di Bobby “Haxan Cloak” Krlic, è un disco dunque essenziale, scarno e complesso nel suo essere emotivamente dilaniato da un’elaborazione del lutto che passa attraverso il potere dei suoni. Inseguendo i territori lontani di Vespertine e Homogenic per poi discostarsene, il disco è un vortice di visioni esperienziali dilatate, di respiri digitali e di “angosce” raffinate. L’incedere dei brani è lento e desolato, classico e contemporaneo, mentre le note e le parole si nutrono d’incomunicabilità, disillusione e rancore in un tutto in continuo mutamento.

L’album è inoltre suddiviso in tre parti, come suggerito anche dal booklet: “… months before”, che dipinge il periodo precedente alla fine della sua relazione (Stone Milket, Lion Song, History of Touches), “… months after”, che raccoglie tutta la sofferenza e la vulnerabilità dovute alla rottura (Black Lake, Family, Not get), sprofondando infine, con gli ultimi tre brani: Atom Dance, Mouth Mantra e Quicksand, nell’esplorazione dell’arte come strumento cardine nel raggiungimento di una maturazione.

La malinconia degli archi accompagna le prime avvisaglie d’usura (Stone Milket, Lion Song) e tappeti ritmici spettrali s’insinuano nel privato (History of Touches). Fa poi capolino la potenza devastante, lirica e oscura di Black Lake, i battiti aritmici ed eterei di Family e la convulsa rapidità ritmica di Not Get.

Vulnicura è un album che, prima di essere assorbito del tutto, richiede un ascolto attento, totalizzante e una grande dose d’immedesimazione. Un disco vivo e viscerale, che non intende, volutamente, puntare all’innovazione sonora fine a sé stessa e nemmeno alle allucinazioni tecnologiche astratte, risultando rivoluzionario nei contenuti perché intimo, personale, femminile, ribelle e profondo.

Non si urla il dolore, ma lo si espone senza filtri con tutta la sua forza straniante. In questo racconto nudo e crudo c’è la monotonia del distacco, la rappresentazione della separazione, l’effige degli spettri della realtà e l’espiazione delle afflizioni. C’è un cuore ferito, come nell’artwork realizzato da Inez & Vinoodh, che dialoga col suo “Io” interiore e con i ricordi, dipingendo in maniera vivida e sincera la catarsi dell’abbandono.

[schema type=”review” name=”Björk – Vulnicura” author=”Ida Stamile” user_review=”4″ min_review=”1″ max_review=”5″ ]