Ariel Pink @Locomotiv Bologna 07/03/2015

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Attitudine e visual:

L’attitudine ultra weird che uno si aspettava, la può toccare subito con mano, all’ingresso del Locomotiv, dove lo stesso Ariel Marcus Rosenberg sta firmando i suoi CD. Ha una bella spilletta fra i capelli, la facciotta più tonda di quel che ricordassimo e in sottofondo arrivano le note di Harry Merry che, intanto, là dietro, sta già tenendo il palco. Chi è Harry Merry? Un signore olandese non giovanissimo che fra tastiera ed effetti elabora le sue filastrocche vestito da marinaretto. Definire tutto ciò ipnotico è evidentemente eufemistico. Ipnotizzato, sotto il palco c’è anche Jorge Elbrecht, da tempo nel giro di AP, leader di Violens e Lansing-Dreiden: un autore dalle qualità eccelse, oggi alla chitarra nella band di Ariel Pink. Quindi si è già capito che la situazione sarà un circo felliniano e una volta entrati toccherà solo sorridere, cantare e perdersi. Lo confermeranno i video proiettati sulla parete a base di scene di delirio fake vintage con altri (e altre) freak del giro. Mi sembra di vedere facce tipo Geneva Jacuzzi, o forse no ma questa serata sembra la copertina di Sgt. Pepper’s e non si può e non si deve capire tutto. Ariel Pink intanto ha capito di non volere quel faro in faccia e lo scaccia via come un mosquito.

Audio:
Quello del signore marinaretto non è l’unico antipasto perché c’è un doveroso spazio per Panagiotis Melidis, meglio noto come Larry Gus. L’acustica del Locomotiv concede al suo set di comporsi secondo i canoni classici di tropicalismo, DFA, culti pagani, percussioni live ed ellenicità barbuta. Una meraviglia, insomma, come tutto il resto. E ciò vale altresì per il set del protagonista assoluto, laddove la consueta varietà di stili e umori e il saliscendi sonoro ininterrotto compensano quell’inevitabile sensazione un po’ costrittiva di un palco che non è proprio un campo di calcio. Alla fine, non c’è un frammento del lungo show di Marcus che non suoni come dovrebbe. Tim Koh, il bassista di origine coreana, ormai fedelissimo del biondone, fa il suo lavoro onesto sia che si tratti di rustico rock’n’roll, sia che si tratti di funk vaporoso o di new wave. E lo fa con un’attitudine così rassicurante che anche in mezzo ad un simile circo equestre gli affideresti la gestione dei beni di famiglia.

Setlist:
Il set di Bologna è ricchissimo. A fronte di una serie di date quasi interamente dedicate a Pom Pom (due o tre sole eccezioni a sera), qui si pesca un po’ di più dal materiale targato Haunted Graffiti. Quindi da Mature Themes arrivano “Only in My Dreams” e “Kinski Assassin“. Da Before Today si pesca “Bright LIt Blue Skies“, “Round And Round” e “Menopause Man“. Poi spazio anche per la vecchia “Life In L.A.” e naturalmente c’è tutto il Pom Pom che conta, compresi ovviamente tutti i singoli e le superbe “Not Enough Violence” e “Lipstick“. A sorpresa “Dinosaurs Carebears“, uno dei pezzi più deboli su album, ha una resa fantastica dal vivo.

Momento Migliore:
Black Ballerina” è uno dei momenti più divertenti di Pom Pom e in questo live è resa in tutta la carica teatrale di cui dispone, con il suo funky rallentato e il suo tono meravigliosamente sudicio. Ma probabilmente il momento culminante di tutto il discorso è durante “Bright Lit Blue Skyes” e la sua epica sixty. Arriva un po’ a sorpresa, in un momento in cui lo show si avvia a finire e genera impetuosa la voglia di ripartire letteralmente da zero. Onestamente, non è una sensazione che capita così di frequente. O perlomeno non in un set discretamente lungo e preceduto a sua volta da due atti corposi.

Pubblico:
L’audience è piuttosto varia sotto tutti i profili anche se in confronto a chi sta sul palco sembriamo tutti grigi e vestiti come scolari nordcoreani. La mia attenzione di anziano, sul finire del concerto, va su un simpatico gruppetto misto che ha l’aria da quinta liceo e accenna un pogo gentilissimo per poi cantare “Round And Round” in maniera quasi consona. Ecco, io lì mi commuovo e mi gonfio d’invidia: dalle mie parti, di là dall’appennino, quelli che vanno a scuola lo farebbero giusto con Emis Killa e invece questi lo fanno con Ariel Pink. Ma è un vecchio discorso.

Locura:
Va detto che uno degli assoluti protagonisti è Don Bolles. Su di lui dovremmo fare uno, dieci discorsi a parte. É stato il batterista dei Germs e rappresenta un’iconica istituzione a Los Angeles. L’età, le rughe, le cose che probabilmente ha visto, preso e sentito non gli impediscono di fare il suo consueto show da primadonna: in mutande, reggiseno pro forma, cappello da cowboy che mostra solo i capelli buoni, dentatura che non la racconta giusta, eyeliner e fisico asciuttissimo. Don suona, canta, interagisce, devasta. É una cheerleader dei Dallas Cowboys e un ex quarterback in un colpo solo. Lo osservi mentre spinge le canzoni e non puoi non riconoscere la magia di un personaggio così, in una band così.

Conclusione:
Anche ad Ariel Pink sentiamo spesso accostare la solita domanda sul “c’è o ci fa?”. Una domanda che continua a non avere senso, soprattutto alla luce di un live memorabile come questo. Uno show calibrato al millimetro (anche nella bizzarra e straordinaria coerenza degli opener) dove l’attitudine folle, confusionaria, grottesca partorisce un risultato da perfezionisti. Guardi Ariel Marcus Rosenberg fuori dal Locomotiv, seduto a parlare di tutto con tutti e nell’istante in cui stai ammettendo che allora non è un osceno freak ti cadono gli occhi sui tacchi vertiginosi che indossa fiero e ti senti rassicurato.