Albedo – Metropolis

Acquista: Voto: (da 1 a 5)

APPUNTI PER UN FILM DI FANTASCIENZA

OUVERTURE

Enne Tre mi guarda stranito. Non è interessato alle mie parole. Enne Tre è l’amico con cui spesso mi ritrovo a parlare di musica. Ha 50 anni, e malgrado il suo carattere burbero, è sempre stato buono con me. Ma quando gli dico che vorrei scrivere un film di fantascienza ambientato a Roma, e comincio a raccontargli la storia che ho in mente, di colpo non vuole più ascoltarmi. Gli anni trascorsi qui, a Viale Palmiro Togliatti, devono averlo indurito in qualche modo. O forse, semplicemente, la mia storia non vale granché. Enne Tre ha una figlia. Si chiama Nadia. E sembra l’angelo di “Uccellacci e Uccellini“, il film di Pasolini che vede Totò e Ninetto, nelle vesti di padre e figlio, alle prese con una sarcastica odissea per le periferie dell’Urbe, seguiti da un corvo parlante, di fede marxista, che farà una pessima fine. Ma Nadia, fatti salvi i tratti del viso, non ha nulla a che fare con quell’immaginario. Entra in salone, incurante del silenzio sceso fra me e suo padre, e prende a smanettare col pc. È un attimo, e la musica in streaming invade casa, facendo tremare l’arredamento Ikea, insieme a tutto il quartiere, come se la Metro A spiccasse il volo dalle viscere di Cinecittà. Ci siamo. Inizia il nuovo album degli Albedo.

TEMA PRINCIPALE

Chi gliel’avrebbe mai detto a Fritz Lang che una rock band di Milano, un quarantennio dopo la sua morte, avrebbe intitolato il proprio disco “Metropolis“, rendendo omaggio ad uno dei suoi capolavori, nonché serbatoio ideale di molta fantascienza a(v)venire. A costo di risultare un idiota mi viene da dire che no, non credo facesse parte dei suoi piani. Un’osservazione, questa, che lascia un po’ il tempo che trova, come del resto molte delle osservazioni che facciamo quotidianamente, nell’illusione di dare un senso a ciò che ci circonda, come se davvero potessimo dedurre, con qualche argomentazione spicciola, e del tutto discutibile, la complessità del reale, o di ciò che reputiamo tale. Ormai, mi si passi il plurale, non ci stupiamo più di niente. Allora, forse, è bene abbandonarsi al viaggio, per recuperare quel senso di stupore, e di scoperta, che sembra svanito nel tempo, non tanto per raggiungere nuove mete, ma per guardare il mondo, il nostro mondo, con occhi diversi, liberi finalmente da filtri, dogmi, e corazze di ogni sorta. Aria fritta? Non credo. Smog Cittadino, tutt’al più.

Il concetto di metropoli, nell’era odierna, è anche questo: una sfida aperta alla ragione, che rischia di perdersi nel molteplice. Una sfida aperta al cuore, che rischia di indebolirsi, fiaccato dai suoi ritmi pressanti, e dal disincanto che regna un po’ ovunque, tramandato di padre in figlio. La metropoli si stende a macchia d’olio. La metropoli è un mostro di cemento. La metropoli corre sui binari di un treno. La metropoli è una città nella città. Un insieme di tanti sottoinsiemi, misteriosamente subordinati, come se al loro interno operasse un’oscura gerarchia. Ma l’avventura del protagonista di “Metropolis”, che affronta un’odissea, e dunque un viaggio onirico, dalla piccola alla grande città, non ha solo a che fare con le nostre bolge quotidiane, o con la fantascienza in senso stretto.

Il racconto musicale in questione, che oserei definire “sogno di formazione”, è piuttosto una metafora sul cambio di prospettiva, sull’evasione dalla gabbia conformista che tiene in scacco l’individuo. Quello che ci accingiamo a compiere è un viaggio innanzitutto mentale, che si snoda alla ricerca di un rinnovato senso d’umanità.

Ed eccoci, dunque, nella Città-Cervello degli Albedo, che dopo le loro “Lezioni di Anatomia“, alzano lo sguardo verso i palazzi della grande metropoli, fissandosi ogni tanto le scarpe, giusto per non perdere di vista il loro “shoegaze”. E così, come dei “Comici Spaventati Guerrieri” (più spaventati che comici, a dire il vero) che parlano il linguaggio del post-rock e della canzone italiana meno ortodossa,  – per estetica della forma, dei timbri, e delle armonie – avanzano nella notte della civiltà fra ricordi, incertezze, cadute, ed improvvise folgorazioni. “Partenze” pone subito l’accento sul quel disincanto, anticamera dell’egoismo, che ho chiamato in causa prima: e poco importa che l’odissea inizi da una piccola città tratteggiata in maniera claustrofobica, quasi un “natio borgo selvaggio” di leopardiana memoria, perché potrebbe essere benissimo Roma, o chissà quale altro imponente agglomerato urbano. In soldoni, quello della “small town” è un espediente narrativo per mettere in discussione la nostra mentalità sempre più chiusa, angusta, incattivita. Gli Albedo ci stanno raccontando le difficoltà che incontriamo oggi nel vivere e nel pensare questa strana cosa chiamata vita, questo strano posto chiamato Italia, e lo fanno, a differenza mia, senza troppi giri di parole:

“In questo cazzo di paese le cose non funzionano mai bene”

“Mio padre, e poi suo padre prima ancora, mi hanno insegnato ad odiare”.

In questo sembrano quasi riecheggiare le parole di Pasolini, in particolare lo scritto intitolato “I giovani infelici“, presente nella raccolta delle “Lettere Luterane“. Una delle riflessioni più amare dello scrittore friulano, che vedeva negli occhi delle nuove generazioni il fallimento del P.C.I e l’avanzata implacabile del consumismo come uno stemma tribale tatuato sul volto dei cosiddetti giovani; spesso simili ad automi, oppure, nel migliore dei casi, a dei poeti rassegnati. E come in una tragedia greca, ricordava il regista di “Edipo Re”: “le colpe dei padri ricadranno sui figli”. Chissà dove inizia lo sgorgo di tanta depressione, intendo la nostra. Fatto sta che Pasolini, dapprima attratto nel vortice della Capitale, finì ammazzato sul litorale di Ostia, quasi vittima di un moto centrifugo. Direi che il mio film di fantascienza potrebbe partire da qui, dallo zombi di Pasolini che riemerge, con la destra protesa verso il cielo, fuori dalla sabbia di Ostia.
Meglio lasciar stare. Sarebbe il solito Teatro degli Orrori.

Per ogni andata c’è almeno un ritorno“. Così recita “La Profezia“, lanciata da un arpeggio terzinato di tastiera in minore, inaugurando un “Ciclo dei Nostoi” di segno alt-rock. Tutto, mente le chitarre sono sul punto di esplodere, cosa che faranno nel brano successivo “Astronauti“, dove, udite udite, fanno capolino nelle chitarre alla Editors e nell’atmosfera stellare, spettri degli Angels & Airwaves di “We don’t need to whisper“:

“Che cosa pensi? Quelle stelle luminose, così lontane, potranno davvero ospitare qualcuno?”

Di certo, in questo disco si respira un’aria internazionale, che rimanda in parte ai Bloc Party di “A Weekend in the City” (“Tutte le strade“) e spesso alla corde elettrificate degli Interpol. È un rock che pensa in grande, ma senza accelerare i ritmi, restando perlopiù in un mid-tempo che, lungi dal risultare noioso, mantiene costante la tensione dal primo all’ultimo secondo del disco. Questo grazie ad una sapiente scelta delle pause e dei vuoti, che non diventano mai tempi morti, ma piuttosto brevi soste prima di riprendere il cammino (“Metropolis“). Pochi elementi, ma buoni: una cassa martellante in 4/4, che detta il ritmo di marcia, l’elettrocardiogramma di una bass-line, una chitarra solista essenziale figlia della migliore tradizione New Wave, una voce di ragazzo, benché trentacinquenne, quasi trattenuta nell’atto di cesellare melodie e metriche contagiose, rumori di fondo che disegnano scenari futuristi e sintetizzatori di marca “Blade Runner“. “Higgs“, il primo singolo estratto, è un piccolo trattato di filosofia della scienza. Fede & Ragione si combattono. Ma l’esito potrebbe non essere così scontato. Ad ogni modo, nel testo della canzone è forse racchiuso il messaggio più importante del disco:

“Se l’universo è la risposta, qual è la domanda?”

E ancora, altre suggestioni: in “Tutte le strade“, il protagonista ci dice che una volta, da bambino, aveva un ragno nel cassetto e che poi suo fratello, al posto del ragno, mise un sogno, grande quanto il mondo intero. Il simbolo del ragno si potrebbe forse interpretare come il tentativo di tessere le trame del proprio futuro, sbrogliando i grovigli del passato. Le liriche di “Replicante“, in cui un automa perfetto, su un treno urbano verso l’alienazione, proclama il verbo del “tutti contro tutti“, più che alla science-fiction, sembrano ispirarsi a un normale tragitto sulla metro di Roma. Battuta facile, me ne rendo conto. Ma c’è di più, perché improvvisamente con quel cambio di luce, e di prospettiva a cui facevo riferimento, entra in campo un elemento che finora sembrava sconosciuto, o forse era solo stato dimenticato. Il replicante. La parte peggiore di noi stessi che nel frattempo ha preso il sopravvento scopre l’amore, quel senso d’umanità che non pensava di avere. un po’ come “L’uomo Bicentenario” del compianto Robin Williams, o come altri esempi tratti da film ben più celebri. Quello che manca, in questo disco, è giusto un po’ d’ironia. E non sarebbe stato male intravedere, oltre la voce del replicante, la goffaggine del Woody Allen camuffato da automa de “Il Dormiglione“. Ma questi non sono che appunti per il mio eventuale film di fantascienza.

“Ho costruito una fortezza inespugnabile…ho lavorato per cancellare il mio passato, per cancellare te, chi sono stato”.

In questi versi tratti da “I miei nemici“, affiora il tema della memoria come fondamento di ogni individuo, della sua identità, e della sua storia. A tal proposito, mi sembra opportuno citare il più toccante e profondo film di fantascienza degli ultimi anni, ovvero “Eternal Sunshine of the Spotless Mind” di Michel Gondry. Per quanto riguarda i “nemici” probabilmente non sono altro che la rappresentazione esterna dei nostri demoni interiori, che è bene imparare a conoscere, prima di riprendere la rotta verso casa, divisi fra l’arte del sogno, e quella della guerra.

“L’importanza del viaggio non è solo arrivare”

La conclusiva “Sei Inverni”, ultima tappa di quest’odissea post-moderna, che più che seguire le orme di Omero o di Joyce sembra discendere dai lontani Elettrojoyce di Filippo Gatti, porta in dono l’insegnamento di un altro grande poeta, il greco Costantino Kavafis, pur non condividendo la disperazione di fondo dell’autore di “Itaca”.

Gli Albedo hanno così realizzato il loro quarto concept-album, dopo l’esordio “Il Male” del 2011, a cui sono seguiti “A Casa” e “Lezioni di Anatomia“. La band, attingendo da un immaginario vastissimo che spazia dalla letteratura al cinema, dalla psicanalisi alla filosofia, senza contare le molteplici influenze musicali, ravvisabili in svariate gradazioni di rock, ha infine composto con notevole capacità di sintesi, un breve ma illuminante canzoniere proiettato verso il futuro, ma perfettamente calato nella contemporaneità intesa come compresenza di dimensioni temporali future, passate, e presenti, senza dare risposte definitive, ma seminando tracce, e spunti di riflessione. Ed inoltre, questo è bene precisarlo, sono riusciti nel loro intento tenendosi alla larga da ogni forma di citazionismo esibito. Non che lo consideri un male, si sarà capito, ma loro per primi ci tengono a sottolinearlo nelle loro note di biografia.

Per concludere, gli Albedo sono forse l’incarnazione più compiuta di quell’alt-rock di stampo cantautoriale presente nei già citati Elettrojoyce, o nelle pagine più plumbee di Riccardo Sinigallia, fino ad artisti come Marco Notari. Attendiamo con ansia il prossimo concept.

Tornando al tema “metropoli”, voglio mostrarvi una foto che ho scattato qualche giorno fa, uscendo dalla fermata “Arco di Travertino” della Metro A di Roma. Avevo da poco ascoltato il disco degli Albedo, e mi sono imbattuto in questo:

writers

OUVERTURE (REPRISE)

Come ho scritto all’inizio, mi trovo a casa di Nadia ed Enne Tre, ed ho come l’impressione che la metropolitana stia fuoriuscendo dalle viscere di Cinecittà. Dannazione se è vero. La metro, da Via Tuscolana svolta sulla Palmiro Togliatti, volando con le porte aperte di fianco al terrazzo, con alla guida il Corvo di Pasolini, intento a leggere Playboy. Mi volto verso Enne Tre, stranamente soddisfatto. Ecco, è questa la storia che volevo raccontare! Che facciamo, saltiamo?