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31 Marzo 2015 | Ashmatic Kitty Records | bandcamp.com | ![]() |
Spirit of my silence I can hear you, but I’m afraid to be near you
And I don’t know where to begin
And I don’t know where to begin
Sufjan Stevens non è più una promessa del folk americano. Non è più “quello che vuole fare un disco per ogni stato degli Stati Uniti”. No. Sufjan Stevens è ormai uno dei più importanti esponenti della storia della musica popolare americana. Ha già altrove dato prova a livello musicale del suo estro e delle sue infinite capacità espressive, sfornando dischi classicamente folk (Seven Swans, A Sun Came, Michigan) orchestrali e lirici (Illinois), folli e celestiali (All Delighted People, The Age of Adz), e non ha bisogno di dimostrare nulla. E – immaginiamo – nemmeno gliene importa. Lo ritroviamo ora, dopo quasi cinque anni, in una veste minimale e scarna, sofferta, straziante e quasi tediante; in una parola, estrema.
“This is not my art project, this is my life”
Confessa Stevens in una delle rare interviste rilasciate a proposito di questo “Carrie & Lowell”. E qui sta tutto. La connessione fra l’arte e l’esistenza, quanto l’una diviene condizione necessaria dell’altra, e viceversa. La grandezza di un autore sta (anche) in questo. Storceranno il naso coloro che si approcciano alla musica alla ricerca della novità, dello sperimentalismo, dell’evoluzione e che giudicano la bellezza di un disco dalla somma quasi algebrica di elementi innovativi o anche di virtuosismi e perizie strumentali. In questo disco non c’è nulla di tutto ciò. Ma una figura come Sufjan Stevens di per sé rimane un caso peculiare, prepotentemente e fortemente unico. Non ci sono altri folksinger simili a lui. Non si tratta di revival, non sembra uscito da un altro decennio. Nessuna scena attorno a lui. Nessuna scuola. Bizzarro, folle, libero, sbrigliato, capace di dare alle stampe un disco così. Un disco che parla di morte, di rapporto col divino, di relazioni, di solitudine, di disperazione. E che non ha nessun altra velleità artistica di chissà quale sorta, se non quella intrinseca di esorcizzare il dolore.
Insomma, “Carrie & Lowell” non è un disco: “Carrie & Lowell” è una preghiera. È la preghiera disperata, sincera, disarmata e disarmante di chi – artista – affronta un dolore infinito: la morte della madre. E non si ritrova altro mezzo per farlo se non quello che rappresenta la sua stessa vita, la musica.
In questo lavoro la storia personale di Stevens si intreccia inestricabilmente con la materia artistica, tanto da confondere i confini dell’una e dell’altra. Riferimenti alla sua infanzia, ai luoghi che lo legano alla madre, l’Oregon e i viaggi per andare a trovarla, flashback sparsi qua e là di quei “cinque anni di speranza”, quelli che videro legata Carrie a Lowell, il patrigno di Sufjan, figura importante per lui tanto da vederne le tracce anche nella sua vita artistica in qualità di label-manager della sua Ashmatic Kitty. Una madre psichicamente inferma, martoriata da disturbo bipolare e schizofrenia, molto probabilmente incapace di dare una stabilità emotiva al figlio, abbandonato più di una volta assieme al padre
“When I was three, three maybe four/ She left us at that video store”
Ma Carrie and Lowell è anche un’opera che racconta quanto l’amore possa essere assoluto, slegato dai concetti di dare/avere, di quanto possa essere doloroso ma non per questo svanire. Una preghiera – a cui Stevens non è di certo nuovo – che invoca le forze dell’universo, la loro ineluttabilità, (We’re all gonna die, ripete in “Fourth Of July”), alla ricerca della spinta necessaria alla sopravvivenza e al suo senso (“Do I care if I survive this? I wonder did you love me at all?” ). Non mancano visioni inquietanti di sangue, coltelli, istinti suicidi come in “No Shade in The Shadow of The Cross” dolente finestra sull’immaginario di Carrie & Lowell.
“There’s blood on that blade, fuck me, I’m falling apart”
È piuttosto difficile spiegare perchè questo disco sia, nonostante la sua totale sciatteria (alcuni brani sono stati addirittura registrati con un Iphone nell’hotel del piccolo paese dell’Oregon dove Sufjan Stevens ha scritto la maggiorparte delle canzoni), un piccolo capolavoro. Un piccolo capovaloro fatto di nulla, se non di una voce flebile e di una chitarra pizzicata in un fingerpicking che ricorda da vicino la semplicità di alcuni lavori di Elliott Smith. L’umiltà e l’umanità che lo percorrono dall’inizio alla fine, la delicatezza con cui vengono affrontati certi temi, la sincerità scarnificata commuovono sistematicamente senza mai essere stucchevoli o volgari, rischio altissimo in questi casi. Giudicarlo è essenzialmente impossibile. Immergersi nella sua poesia è altamente consigliato.