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30 gennaio 2015 | New Sonic Records | ![]() |
Capita di rado – nel mare magnum delle infinite produzioni italiane in cui tutto si perde – d’imbattersi in dischi di musica italiana davvero sorprendenti e inaspettati. La noia e la prevedibilità, accompagnate alle mode del periodo che fanno sembrare tutto sempre uguale, con annesso pericolo (sempre in agguato anche nella scena internazionale) del già detto e sentito, sono per lo più le sensazioni che scaturiscono dagli ascolti dei nuovi talenti (o sedicenti tali) italiani. Quando questo accade, quindi, è segno positivo sia per chi scrive e ascolta che per chi suona: significa da un lato che non siamo ancora del tutto invecchiati e inaciditi dal tempo e che, dall’altro, la musica italiana produce ancora stupore, basta solo cercare bene. Come per Simone Olivieri, per la sua musica garbata e delicata, per la sua voce fanciullesca e persino un po’ puerile.
“Apotheke” è il secondo disco di questo cantautore romano, il primo interamente in italiano dopo l’esordio omonimo del 2011: nove tracce (di cui due interamente strumentali) all’insegna della levità in un viaggio che si dipana tra arpeggi di chitarra e parole sussurrate, condite da una ricchezza strumentale (pianoforte, organo,flauto, basso tuba, tra gli altri) che si trasforma magicamente in semplicità. Di sicuro la semplicità è il tratto distintivo di questo disco, caratteristica che non finisce quasi mai per scadere nel semplicismo. Venature pop e un po’ psichedeliche (pensiamo soprattutto al pezzo forse più riuscito del disco “Incespico”) sono al centro della scena assieme alle parole, immagini ancora un po’ acerbe e poco incisive rispetto alle sonorità, dotate invece già di una spiccata personalità. Tonnellate di Beatles, un angolo nella stanza dei balocchi in stile Belle and Sebastian, un pizzico di De Gregori d’annata (come non portare alla mente “Signora Aquilone” ascoltando “In Coda Venenum”?) e, infine, una strizzata d’occhio al più recente cantautorato americano dal sapore indie (Sufjan Stevens, Elliott Smith per citarne solo i più famosi). Apotheke prende il nome da un antico termine con cui s’indicava la farmacia, “luogo spettrale e sinistro in cui si tenevano veleni e antidoti”: metafora ideale di questo percorso in cui ciascuna canzone è allo stesso tempo luce e ombra, veleno e rimedio. L’intento è perfettamente riuscito, se si passa ad un grado superiore di lettura, superando l’impatto iniziale da ninnananna incessante di un carillòn incantato . Anzi, si direbbe che a prendere il sopravvento è soprattutto la parte oscura, con continui richiami a eventi insidiosi e sinistri, come nel bellissimo e inquieto strumentale di “Tempesta”, nella già citata “Incespico”; e nella stessa “Resina” che a ben guardare, pur nella sua soavità, intrappola gli insetti. Non manca un accenno all’amore in “Il Folle”, tratteggiato nel suo lato più ambiguo, quello di un destino avverso che obbliga a dirsi addio, quello di chi può in questo modo continuare a desiderare e cristallizzare ciò che non potrà mai avere del tutto.
Apotheke finisce così per fornirci un farmaco miracoloso che culla e rassicura, nonostante le intemperie che il cammino nasconde; una fotografia un po’ sbiadita, virata seppia e sovraesposta, in cui la luce entra talmente tanto da bruciare una parte della pellicola. Ma lo fa per una ragione precisa, tirar su i toni di ciò che altrimenti rimarrebbe nascosto.