Sulla morte di David Bowie è già stato detto tutto. E non da uno scribacchino qualsiasi. Ma dallo stesso Bowie nell’ultimo “Blackstar“. La sua stella tombale.
Proprio ieri, guardando la solita noiosa puntata di “Che tempo che fa”, mi sono imbattuto nelle parole del regista Giuseppe Tornatore il quale, svelandoci un’allegoria alla base del suo nuovo film, diceva che molte delle stelle che vediamo in cielo, mentre le osserviamo, sono belle che morte. Ed è la loro fine, la loro conclusione, a renderle così luminose ai nostri occhi. Vale per l’astrofisica, suppongo. Ma vale anche per tante celebrità. Anche se il nome di Bowie, messo così, nel novero dei molti, stona peggio di una stecca vocale.
La stella di Davide, dicevamo. La stella nera. Nascita e morte all’unisono. Un disco che farà discutere, si spera. Battezzato già come il suo testamento. Peccato solo che al momento dell’apertura, nella stanza del notaio, sugli ipotetici successori cali il silenzio. Nessuna investitura, o abdicazione. Giusto un marameo di sfuggita. Lo stesso che il Duca ci fa nel videoclip di “Blackstar“. Perché è così. A parte i suoi figli, Bowie non lascia eredi. Cosa resta allora? Una lunga, cangiante scia di oggetti musicali. E non solo. Un firmamento audiovisivo da studiare, da ammirare tramite i nostri telescopi. Ma il sospetto è che scarseggino le lenti adatte. Quelle in circolazione, forse, sono un tantino guaste. Logorate dai luoghi comuni. Da fratture estetiche insanabili. Altro che carglass.
Per quale Bowie recitare il requiem? Quale corpo mettere nella bara? Forse quello di Ziggy Stardust, al quale già i Bauhaus dedicarono la loro splendida cover? O forse quello della trilogia berlinese, spesso citata a sproposito dai più? Magari dovremmo chiedere ad Elsa Mars, il personaggio interpretato da Jessica Lange, che nella quarta stagione di “American Horror Story” dice addio al mondo dei vivi cantando “Heroes”. Forse lei ne sa più di noi. O forse andrebbe costruito un cimitero che custodisca, nel suo letto di terra, tutte le passate incarnazioni di Bowie. Un cimitero, già. Ma anche un parco a tema. Con lapidi munite d’altoparlanti. E la guida, rigorosamente vestita da Marlene Dietrich, che dice ai visitatori:” E questo era “Low”, questo invece era “Station to Station”, se avete pazienza adesso ascoltiamo “Ashes to Ashes”. Alla biglietteria mettiamo Lady Gaga. E Robert Smith a spillare le birre. Così, per non sbagliare. Sull’insegna c’è da riflettere, ma una stella nera può andar bene.
Poi, è probabile che, passeggiando per i viali di questo nuovo cimitero barra luogo d’attrazione, vi capiti d’incontrare la testa del maggiore Jack Celliers, interpretato da Bowie nel film “Furyo”, che spunta dal sottosuolo. Attenti a non calpestarla. E a non cadere nei crateri lunari. Ché il regista Duncan Jones, figlio del Duca, e autore del bellissimo “Moon”, ne avrà di certo scavato qualcuno. A ben vedere, il nostro ha infettato, come un virus proteiforme, quasi mezzo secolo di storia. Da icona glam londinese fino a burattino sinistro, guidato dalla malattia, in lotta per uscire dalla carne, nelle potenti, eppur definitive, immagini di “Lazarus”, il suo videoclip finale. Ormai l’abbiamo visto. Ma lo faremo ancora. Lo faremo all’infinito. Anche se il nostro infinito è stanco, sfinito da tempo. Lo guarderemo abbandonare la scena, come fa nel videoclip, per andare a rinchiudersi nel suo armadio barra sarcofago. Ma non illudiamoci. Aprendo l’armadio della nostra stanza, infatti, non troveremo il volto smagrito del duca, che avvicinandosi l’indice alle labbra ci invita a stare zitti. Troveremo solo abiti da grande magazzino. E una canzone in sottofondo, che quella tanto non manca mai.
Ashes to Ashes. Polvere eri, e polvere ritornerai. Ma di stelle. Era sottinteso.