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17 giugno 2016 | warner bros | redhotchilipeppers.com |
Nei giorni dell’uscita, The Getaway è stato accolto come una boccata d’aria fresca rispetto alla discografia recente della band. Un po’ esagerata la cosa, magari. E così, tempo un altro paio di giorni e in rete è partito un tiro al bersaglio su Kiedis, le boccate d’aria presunte, i decenni di slap e le rockstar invecchiate. Ora che forse si può trattare la materia con quel mezzo metro di distacco, proviamo ad argomentare il fatto che questo disco è un’opera minore, non un’opera inutile. Minore come tutto quello che i Red Hot Chili Peppers hanno realizzato nel nuovo millennio, in fondo. C’è qualcuno che valuta il minestrone Stadium Arcadium un’opera imprescindibile? Da tanto tempo, ormai, per i RHCP lo schema-album prevede queste tipologie di canzoni: 1) ballate al miele, 2) pezzi con il tiro funk che però, giunte al ritornello diventano sagra di paese, 3) canzoni in asse e un po’ bluesy che arrivano abbastanza al punto e infine 4) tempi medi un po’ enfatici che di solito vengono salvati dalla chitarra.
Il grande coimputato di questi anni è il pur ottimo Rick Rubin. Rubin è stato determinante quando si è trattato di forgiare il suono Red Hot Chili Peppers di una “Suck My Kiss”, per dire. Ma lo stesso non sembra avere i mezzi per imprimere, nel 2016, una specie di svolta a un gruppo ancorato alla sua golden era e inchiodato al bisogno di passare in radio. In particolare, da tempo c’era da chiedersi perché la band non avesse mai spostato il baricentro verso un suono che conservasse il groove nella confezione pop, che fosse sporco ma ballabile, che fosse di oggi ma con la polvere sopra. Immaginando che con produttori “grossi” ma distanti da un contesto mainstream rock la cosa non si potesse fare, ne restava solo uno. E quello è stato.
Infatti, Danger Mouse era l’uomo più giusto per l’operazione in questione. Ok, in regia c’è anche la mano di Nigel Godrich (già con Flea nel progetto Atoms For Peace) ma è un apporto secondario. Se si pensa alla seconda tappa del progetto Broken Bells, quella è la via: spunti disco e pseudo-soul su un’idea relativamente classica di rock d’autore. E per ribadire il concetto potremmo citare Turn Blue dei Black Keys o il primo album a nome Gnarls Barkley.
Ma basta già l’uno due “The Getaway” – “Dark Necessities” (le prime due tracce) a rendere un minimo interessante l’amalgama. Il resto del disco concede più spazio alla scrittura dei RHCP ma senza sfilarsi quel vestito che il producer gli abbottona sopra. “Detroit” e “This Ticonderoga” sono prove muscolari come quelle che ci piacciono di più. “Goodbye Angels” ha un finale incendiario che accozza sorprendentemente bene l’andamento folk con quel basso slappato che sappiamo. I momenti bui e fiacchi ci sono, come era immaginabile, ma sembrano non inficiare la parte più “sana”. Ciò che resta di più nelle orecchie sono gli sprazzi di piano e tastiere intanto che la sezione ritmica si dà un tono disco. “Go Robot” non è quella risposta a Prince e a “Controversy” che Flea prometteva. Però la conclusiva e dilatata “Dreams Of A Samurai” ci riconnette al capitolo con Dave Navarro (One Hot Minute) che oggi sarebbe da riascoltare. Ecco, quello era stato un disco “diverso” arrivato nel momento sbagliato. The Getaway è meno “diverso” ma, come dire, non suona inopportuno.