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Febbraio 2017 | Ribéss | pieralbertovalli.com |
Dopo aver ascoltato il disco di Pieralberto Valli ho letto alcune delle interviste che ha rilasciato in occasione dell’uscita di “Atlas”, suo primo disco solista dopo gli album registrati con i Santo Barbaro. Di due cose ho avuto la conferma, anzi tre: la prima è che Atlas è il prolungamento di alcune cose lasciate in sospeso ai tempi di “Navi” – uscito nel 2012 sempre lavorando in coppia con Franco Naddei tra le pareti del Cosabeat Studio; la seconda, che il tempo e lo spazio sono le due ossessioni di Pieralberto Valli; la terza che a Pieralberto Valli la musica di oggi non piace.
È esistita nella storia del partito socialdemocratico italiano una commissione addetta alla musica leggera che vigilò, all’epoca di un’edizione del festival di Sanremo di non so quale anno, sull’irregolarità del playback per gli artisti stranieri. Troppo facile così, diceva qualcuno, non è giusto nei confronti dell’impegno dei nostri cantanti italiani in gara. Il concetto di “qualità” e di “serietà” prende forme diverse a seconda del momento presente, compresa la forma dello sfuggire volutamente a certi “compromessi” difendendo la propria forma d’arte.
È questo il caso di Atlas, un disco che da questo punto di vista si presenta compatto, totalmente avulso dal contesto musicale attuale, quasi ostico. Ma un disco non è da capire, è da ascoltare e vedere che effetto fa: ed è qui che la greve ricercatezza che vibra in ogni traccia di questo album rischia di fare due effetti diversi e anche parecchio contrastanti.
Non c’è dubbio che “Geografia di un corpo”, il disco precedente a questo, ancora a firma Santo Barbaro, ponesse molti meno problemi, come poi d’altronde succede con le cose che ti sembrano uscite di getto, senza troppa mediazione, anche se l’arte della composizione non viene annullata dall’istinto: la scrittura di Pieralberto Valli è sostanzialmente la stessa fin dagli esordi. Semplicemente è che “Corpo non menti” la suonavano in nove, la sudavano in nove: l’aria era meno rarefatta, certamente più fumosa e densa.
Qui ci troviamo di fronte al contrario. Una bizantina raffinatezza dei campionamenti, costellazioni di parole autoriali e autorevoli, una geometria più granitica: il movimento di pensiero e musica è tutto in un mondo iper-uranico – ce lo dice il titolo del disco. Non sappiamo se in realtà l’aggettivo “concettuale” sia calzante, probabilmente per Valli il disco è molto meno concettuale di quanto invece possa risultare a un ascoltatore che magari ama anche i Radiohead di “Kid A” ma ha avuto una giornata pesante al lavoro.
Un disco che per esempio piacerà a chi ha la tendenza a galleggiare per aria e vuole “farsi del male”, in senso buono, fluttuando in una scrittura rarefatta che fa lo stesso effetto delle macchie di Rorschach: affascinante, disarticolata, difficile anche da descrivere, direi addirittura volutamente restìa alla descrizione. Per fortuna i titoli delle canzoni ci vengono in aiuto nella costruzione della trama in cui si sviluppa il disco – perché sì, si sente che c’è tanto lavoro dietro queste tracce –, da “Falso ricordo” (ideale prosieguo di “Io non ricordo“, brano contenuto in Navi), “Il rumore del tempo“, “Esodo“, “Non siamo soli“. Tutti brani con una grammatica più vicina all’idea di comporre musica come farebbe un musicista classico e non un ragazzetto di quartiere che ha in testa una melodia da strimpellare con la chitarra. Se scegliete bene il momento della giornata, avete visto certi film o letto certi libri, qualcosa vi resterà sicuramente impresso.