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Il 1991 fu un anno cruciale e florido per il rock moderno: il fenomeno grunge accennava ad esplodere con l’uscita in quasi simultaneità di “ten” dei Pearl jam e , soprattutto, “Nevermind” di un emergente trio di seattle chiamato Nirvana, destinato a cambiare per sempre il volto della musica. Dal canto loro, i più navigati Red Hot Chili Peppers pubblicavano sotto l’egida di Rick Rubin il disco che li avrebbe lanciati definitivamente, “Blood Sugar Sex Magik” proprio quando i REM si confermavano (con il superbo “Automatic for the people”) una delle realtà più interessanti in campo alternative.
Parallelamente a questo gruzzolo di eventi musicali i Metallica cercavano di stupire nuovamente il pubblico che li aveva apprezzati durante la decade precedente, proprio ora che una nuova incaranazione del punk-rock (il sopraccitato grunge) giungeva nel cuore dei fans a rimpiazzare il posto che era stato del thrash metal: chiusisi in studio, per la prima volta con Bob Rock al proprio fianco, i quattro cavalieri mirarono a qualcosa che non avevano mai realizzato prima. Reduci dall’esperienza controversa ed oscura del dilaniato “…And Justice For All”, primo capitolo del post-Burton, i Tallica volevano fortemente che questo album ne fosse l’antitesi. Semplicità laddove il suo predecessore era intricato e complesso, incisività contro la vecchia prolissità dei brani ( alcuni pezzi dello scorso disco toccavano i dieci minuti di lunghezza… ). Ecco dunque venire alla luce lo spartiacque della carriera dei Metallica, non soltanto il loro best-seller ma anche il lavoro che (in corrispondenza di un nuovo decennio) farà da tramite fra la fase thrash appena trascorsa e il nuovo, discusso corso a venire. Il recente passato viene reinterpretato in “forma ridotta” all’interno di brani quali “Holier than thou” o “the Struggle within” ma questa volta la velocità cede il passo alla potenza sonora della semplice struttura in levare di “Enter Sandman” o di quella alternata in “Wherever I May Roam” e “The Unforgiven” sospesi entrambi tra mid-tempo e fragorose esplosioni elettriche. Un granitico riff (tra i più memorabili di Kirk Hammett) dà la base per il secondo brano della tracklist, “Sad But True”, forse il pezzo che più di tutti rappresenta il nuovo sound della formazione di Frisco; Dopo che qualche disguido lo aveva mortificato nella realizzazione di “…And justice for all”,nuova vitalità conosce anche il basso di Jason Newsted, splendido nella sua composizione migliore, la linea di “My friend of Misery”, apocalittico durante “The God That Failed”. L’intero disco dimostra una maturità compositiva e una capacità di “azzeccare” la canzone che lo rende una pietra miliare del metal classico, così come “Master Of Puppets” lo fu del metal estremo.
L’innominato quinto disco dei Metallica ( detto “Black Album” per via della copertina) giunse a livelli di popolarità insperati fino a soltanto un paio di anni prima, sancendo un nuovo stadio di evoluzione ma senza arrivare alla temuta ed allusa “svendita”. Come sentenzia il giornalista americano Joel Mc Iver nella sua recente (ed ottima) biografia non autorizzata dei Metallica, “Justice for All”, il Black Album ha “attirato” le masse a sé ma senza cedere a compromessi con loro. Non mancarono di certo le critiche dei fans più puristi, i thrashers che avevano amato Seek and Destroy o Battery e che si dicevano delusi del nuovo materiale meno veloce. Molti di loro, lo considerano ancora oggi il punto d’inizio del loro declino: ma a dispetto del mio amore malsano per la velocità ingenua di “ride the Lightning” e per l’headbanging forsennato ed ignorante, sono costretto a consigliar loro di scostare la lunga chioma dal viso e di guardare in faccia la realtà. “Black Album” è un capolavoro, al di là delle considerazioni sul thrash o sull’ heavy, per la musica in sé. E se i Metallica avessero deciso di privilegiare il mito della propria creatura e del loro nome, rispetto a quello delle rispettive carriere, probabilmente avrebbero terminato la loro storia all’apice, proprio con questo disco.