Il giovane Cox. I suoi dolori. Le sue euforie. I suoi ricordi di adolescenza trasposti in musica, in visioni. Atlas Sound è un nome che lentamente sta facendo capolino, sta trovando spazio e spessore, e sta prendendo un’autonomia ben precisa, sia a livello di concept sia di estetica.
È davvero arduo riuscire a esemplificare la cosa: innanzi tutto, vi rimando a deerhuntertheband.blogspot.com, il blog/sito ufficiale della band di Atlanta, o meglio dei progetti vari di Cox e amici.
Sfruttando questo punto di partenza, si riesce a comprendere una cosa su tutte: l’iperattività artistico/creativa dello strambo personaggio in questione è qualcosa di inarrestabile e di non lenibile.
È qualcosa che dirompe gli schemi imponibili da qualsiasi struttura mediatica commerciale, a partire dalla pubblicazione su supporto fisico, che assolutamente non esiste al momento.
Ma non si parla neppure di Net Labels qui: Cox ignora l’idea di coprire di diritti d’autore, di Creative Commons, di licenze libere i suoi pezzi; semplicemente carica su server composizioni scaricabili gratuitamente, linkate sulle pagine del blog. Ma la cosa davvero assurda se vogliamo, è la media di frequenza con la quale vi è aggiornamento di materiale. Mediamente in un mese si parla di dieci-quindici brani e di un e.p.
Addirittura il nostro, uploada anche immaginari 7″. Le informazioni, i testi e le loro spiegazioni, sono sul blog, postati con ordine insieme ai pezzi.
Disarma la prolificità con la quale Cox e i suoi compagni di viaggio Brian Foote, Adam Forkner, Stephanie Macksey e Honey Owens, Pery Ferall elargiscono musica.
Le matrici del suono sono molteplici, da tipici droneggiamenti di casa Kranky ci si imbatte in una versione contemporanea dei Velvet Underground deturpati da noise e sporcizie punk, il tutto colorito da melodie Beach Boys. A tratti si potrebbe parlare di cantautorato, ma anche no. I racconti intimi di Cox, improntati sulla rara malattia con la quale convive, la sindrome di Marfan, le sue ambiguità sessuali e ideologiche, la sua visionarietà sono strettamente correlate con le patologie sonore.
La band la fa davvero da padrona quando si mette a fare le cover, meravigliose a parer mio, proprio dei Velvet già chiamati in causa, I’ll be your mirror e Unicorn Rainbow Odyssey di Mark Sultan.
Ci vuole pazienza al momento, per riuscire a fare un po’ di mente locale e riordino, fare l’inventario, specie per chi non ha seguito da capo la vicenda, ma le soddisfazioni ci sono, eccome. È difficile comprendere se ci sia una continuità qualitativa al momento, ma picchi ottimi come ‘Holiday Ep’ fanno davvero ben sperare.