Umberto Mosca

Critico cinematografico autore del libro “Cinema e Rock” (Utet) e di molti altri; in questi 10 cd intraprende un vero e proprio diario di viaggio musicale: ogni disco è un luogo, un ricordo, una storia diversa da raccontare

Non solo nella mia esperienza personale, ma in quella dell’ormai quasi sessantennale storia delle culture giovanili, la parola “rock” è sempre stato sinonimo di “emozionante scoperta”: da quando, giovane liceale dei primi anni Ottanta del Novecento, scendevo al piano interrato di Rock&Folk (nella prima sede torinese di via Urbano Rattazzi) a farmi consigliare nei rarissimi acquisti di novità in vinile dalla mitica coppia di dj Alberto Campo/Renato Striglia, a cui aggiungevo la mia infinita curiosità per la Storia del rock, già fortunatamente disponibile in edizioni economiche .

Il resto erano ovviamente musicassette, registrate tramite compagni di scuola decisamente più facoltosi di me, e più sensibili alla produzione al presente, come Gilberto Maina e Roberto Clemente, e soprattutto grazie a un paio di amici dei miei genitori, come Sergio Bertaccini (futuro gallerista di successo) e Tony Di Lernia, che andava al Discolò di via Principe Tommaso e condensava in geniali playlist ante litteram su cassetta le discografie complete dei vari artisti. I nastri li teneva in appositi contenitori a torretta, da cui venivano estratti con un sistema a molla. Ai contenitori venivano applicate delle etichette dipinte ad hoc dalla straordinaria potenza evocativa, la realizzazione evidente di quell’idea di libera creatività  stimolata dall’ascolto della musica e dall’elaborazione impressionistica dei suoni e delle parole. Io stesso amavo colorare le cassette con i pennarelli, con le tinte e la grafica che ritenevo più adatta ad album ed artisti. Così facendo ho attraversato, nell’artigianalità antitecnologica più assoluta, i dieci anni d’oro del cd (dall’85 all’95), continuando a farmi le cassette, soprattutto attraverso il noleggio di compact disc.

Ho iniziato a diventare un acquirente accanito di cd dall’estate del 1999, nell’epoca di Napster, quando gli album, sempre quelli “storici”, diventarono accessibili a prezzo economico (a dire il vero, nel frattempo ero anche diventato un professionista della critica cinematografica, ma rispetto alla musica mi ero ormai formato con l’idea che si dovesse ottenere risparmiando, certo per soddisfare il bisogno compulsivo di essa che tutt’ora regna in me). Non certo per taccagneria: nel decennio seguente 1999-2009, infatti, di cd me ne sarei poi comprati alcune migliaia, finalmente anche a prezzo pieno. Il tutto, ovviamente, accadeva negli anni in cui la maggior parte delle persone la musica se la scaricava dal web, e io invece continuavo a battere tutti i negozi di musica e mercatini che mi capitavano a tiro alla ricerca dei preziosi dischetti.

Del vinile neanche l’ombra, almeno dal 2004, anno in cui vendetti la mia modesta collezione per pagare un paio di rate dell’asilo di mia figlia Camilla. Una sorta di ritardo cronico finalmente recuperato nel corso del primo decennio del nuovo millennio e finalmente sublimato nel febbraio del 2010 con l’acquisto del mio primo iPod classic, un Silver di 160 giga di musica già quasi completamente riempita rigorosamente secondo il principio dell’album (modernizzarsi si, ma senza esagerare!). In attesa del secondo iPod – e questa volta toccherà al modello Black – e senza avvertire minimamente l’assenza di qualche padellone (anche se poi sono sicuro che torneranno anche quelli, quando passeranno di moda e visto che mia figlia Maddalena l’asilo lo sta per finire pure lei).

Con la consapevolezza che gli anni mitici della musica sono per me quelli degli album scovati nel corso dei viaggi, realizzando l’esperienza suprema della sintesi emozionale tra luoghi fisici e paesaggi sonoro (come suggeriscono, del resto, le mie grandi passioni cinematografiche per il westen, il road movie e per Jim Jarmusch): è su questo principio che, dopo questo flusso di coscienza molto in linea con lo strumento web, vi presento la mia personale playlist geografica (estraibile con il cuore dalle pareti di album da cui son circondato nel momento in cui scrivo). Sebbene di questi tempi ad imperversare sul mio Apple portatile vi siano anche i Bob Sinclair, John Legend,Kanye West, Sufjan Stevens, Wovenhand, National e Tame Impala di turno…

The Highwaymen – Highwayman
Il più sensazionale ritrovamento possibile per uno che, almeno fino a quel momento, non ha mai trovato ne’ la voglia di procurarsi un album per posta ne’ il tempo di mettersi a cercare musica da scaricare sul web. Il miracolo avviene al 130 di 1st Avenue, a Manhattan, sullo spartiacque tra il West e l’East Village. La miniera di follia si chiama Rainbow Music e se fate una breve ricerca a proposito scoprirete che già nel 2002 c’è chi parla di un piccolo grande negozio, con un proprietario estremamente competente, ma in cui è difficilissimo riuscire a trovare alcunché! Io ci arrivo per caso nel giugno del 2009, in una New York dove non ha chiuso soltanto la Virgin a Times Square, ma anche Tower Records nel cuore del Village! L’unico quartiere della Grande Mela rimasto in cui si può ancora trovare qualche (minuto) negozio di dischi. La cosa bella è che in un posto del genere riesce a divertirsi persino mia moglie Laura, che non crede ai suoi occhi: una sorta di metropoli nella metropoli, dove al posto degli skyscrapers vi sono pareti inaccessibili e sovrapposte di cd stipati all’inverosimile senza alcuna logica, che non sia quella di riuscire ancora a trovare uno spazio utile in cui parcheggiare qualcosa.

In un posto così prima ancora di porsi il problema di trovare un album, bisogna affrontare la questione dell’ubicazione del proprietario, che parla ma non si vede, coperto com’è dalla grande muraglia di quadratini colorati, cui riesce il miracolo della perfetta invisibilità nonostante si trovi a circa 40 centimetri da noi in linea d’aria. Dopo almeno un quarto d’ora di richieste dall’esito a dir poco scoraggiante (alla risposta “I try…” del proprietario fanno puntualmente seguito un paio di sconsolati tentativi di ricerca quindi un inesorabile ritorno all’attività prevalente e manifestamente impossibile di rimessa in ordine dello spazio espositivo), ha luogo l’evento unico di una vita, la sublimazione perfetta di un’attività di searcher durata oltre un decennio. Quando infatti la vista inizia a vacillare nell’esercizio di decifrazione delle migliaia di titoli appoggiati orizzontalmente sopra le schiere degli altri dislocati come di norma (ma, e la cosa ha dell’inverosimile, all’interno di ingombranti contenitori di plastica come quelli in cui si trovano i cd nei nostri autogrill), ecco apparire la scritta della più epica e avventurosa tra le formazioni mai sfornate dall’american music. Johnny Cash, Willie Nelson, Waylon Jennings e Kris Kristofferson tutti insieme appassionatamente nel primo capitolo discografico di una join venture durata lo spazio di tre album complessivi. Era il 1985 e un quarto di secolo dopo mi trovo nel punto di partenza di ogni viaggio americano che si rispetti: da Walt Whitman e Jack Kerouac fino a Jim Jarmusch, tenendo in mano un concentrato impressionante di emozioni sonore, con i quattro outlaws che parlano di se stessi e della loro amicizia in The Last Cowboy Song, della natura del viaggiatore in Highwayman (con la mente che corre agli anni Cinquanta delle trasferte notturne di Hank Williams, le cui sonorità sono evocate da un brano come Big River), che omaggiano lo struggente Bob Seeger di Against the Wind.

Non esiste sintesi più perfetta dell’american music delle voci del ManinBlack e di Willie Nelson che si intrecciano, ma qui sono in quattro, e quando al gran completo intonano Desperados Waiting for a Train, mentre li ascolto nella notte di ritorno sull’Oceano Atlantico, pensando alle mie figlie che mi aspettano a casa, mi sembra di essere arrivato almeno di nuovo fino al Texas.

Pearl Jam – Binaural
Nell’agosto del 2000 realizzo il mio primo viaggio negli Stati Uniti. Due dei tre amici (Fabio De Michelis, Edoardo De Coster e Giorgio Volonté) con cui parto hanno ovviamente preparato le migliori compilation possibili, mettendo insieme filologia e sentimento, l’occasione per distillare vent’anni di passioni rock in 23 giorni di ascolto, da Miami a San Francisco, e attraversando 11 stati (Florida, Mississippi, Alabama, Louisiana, Texas, New Mexico, Arizona, Colorado, Utah, Nevada e California). Ma sottovalutavano l’innovazione tecnologica statunitense: le compilation in cassetta non servono, lo Chevrolet Blazer con la targa dell’Arizona che ritiriamo all’aeroporto di Miami è fornito soltanto di lettore cd, niente mangianastri. Siamo senza musica, ragazzi!

Anche se l’affermazione può risultare clamorosamente impropria, dato il panorama delle radio fm americane, non lo è troppo, perché ci spostiamo continuamente e non sempre riusciamo a trovare ciò che ci gusta in quel particolare momento. Alla fine del primo giorno di viaggio sul suolo, e sui ponti, del Sud degli Stati Uniti inizio la collezione, che qualche giorno dopo mi vedrà uscire dalla Virgin di New Orleans con un case acquistato per l’occasione e già mezzo riempito di new entries. Il sole sta iniziando a tramontare nel tardo pomeriggio di Key West, l’isola dove Hemingway preparava le sue battute di pesca. Il negozio di cd è sulla strada che ci riporta al motel, sta in una casetta tutta di legno, che nella mia mente estasiata realizza la sintesi architettonica tra l’immaginario del Vecchio e il mare e quello del western. Le angolazioni a 180° dell’abbacinante paesaggio trovano la prima naturale estensione nei suoni dolce-ruvidi dell’ultimo album dei Pearl Jam (il mio primo cd acquistato in America!), la cui copertina in nero contiene una rifrazione visiva cromatica che anticipa lo scenario più entusiasmante in cui ascolteremo l’album, una decina di giorni più tardi.

E’ sulla strada desertica che porta al White Sands National Park, dove il bianco della sabbia stempera l’incandescenza del sole, che la dura psichedelica del disco diventa infatti la colonna sonora perfetta dell’idea stessa di viaggio, realizzando la fusione completa (vedi l’immagine all’interno dell’album) tra l’ambiente sonoro e l’ambiente fisico circostante.

Hoodoo Gurus – Ampology
Dopo tutti questi anni, ogni tanto mi viene da pensare che nella mia vita di lunghi viaggi alla fine non ne ho fatti poi molti, ma tutti quelli che ho fatto sono riuscito a viverli con l’intensità più spontanea, ma anche con un certo consapevole entusiasmo. La regola per chi viaggia è quella di non lasciare mai nel posto da cui si sta partendo una cosa che piace davvero, pena il rischio di rovinare il ritmo all’itinerario, di abbozzare una sensazione di incompiutezza.

Credo che pochi oggetti, come un cd, siano in grado di realizzare quella perfetta sintesi di esperienza culturale ed esperienza del consumo su cui si fonda uno dei principi più sani del nostro sistema economico. Bene: quando tra il luglio e l’agosto del 2001, più o meno con gli stessi amici dell’anno prima, affronto il mio quarto viaggio in Irlanda quindici anni dopo il primo dell’86, la mia situazione finanziaria è radicalmente cambiata. Non più le cassette bootleg degli U2 e degli In Tua Nua a poco prezzo sui ponti sul Liffey, ma un piano sistematico d’attacco ai negozi della capitale con tanto di libro-guida sulla musica irlandese. Ovviamente Rory Gallagher e Thin Lizzy a nastro, perché quello è il periodo della mia vita in cui i miei gusti musicali si fanno più heavy. Ma è nella fresca mattinata  della partenza da Dublino verso la contea decisamente più amena del Connemara, che la mia compulsione all’acquisto prende una strada filologicamente scorretta.

La partenza è fissata per le 10,30, ho mezz’ora di tempo per attraversare O’Connell Street e impossessarmi di una doppia raccolta degli Hoodoo Gurus scoperta il giorno prima. Lo giuro, non mi ricordavo più della loro esistenza!, nonostante a metà degli anni Ottanta i primi tre album li avessi ascoltati a palla e avessi pure visto la band in concerto. Io sono così su ogni cosa: nel momento in cui un’esperienza mi offre il massimo dell’emozione, devo scartare, andare in un’altra direzione, ho bisogno di qualcos’altro. Il mio rapporto con la musica sublima questa condizione. Il primo ascolto è un’autentica delusione, in totale asincronia con il tormentato mood espresso da ogni musicista della terra di smeraldo. Nulla di più depistante del sound di Dave Faulkner e soci: la via degli australiani all’arte è ciò che di più meticcio si possa immaginare, un’eleganza vivace e leggera quella degli Hoodoo Gurus che dopo una serata in un pub ad ascoltare il classico Paddy che suona traditional rischia di sembrare insopportabilmente fredda e distante. La sensazione di aver sbagliato strada, ma anche la prima tessera di una nuova possibile ripartenza.

Lee Fardon – The God Given Right
Poche persone mi hanno fatto felice in campo musicale come il mio amico Biagio Nicosia. Ormai incallito consumatore di cd, per almeno dieci anni la forma e la dimensione perfetta in cui racchiudere il mondo, e assolutamente determinato a disfarmi del relativamente poco vinile posseduto, Biagio mi dice che sta digitalizzando i suoi lp. Ce ne sono alcuni per i quali voglio provare assolutamente l’emozione dell’ascolto su cd, sono album che in cd non saprei proprio dove trovare: non è un fatto tecnico di ascolto, è un fatto di possesso culturale. In quel periodo, neppure così lontano, ovviamente sono distante anni luce dall’idea di mettere tutta la mia musica su un programma del pc o su un hard disk portatile che del cd non ha per niente la forma.

The God Given Right masterizzato dal vinile, con tanto di copertina cartonata, è l’emozione più grande (insieme a How Green in the Valley dei The Men They Couldn’t Hang e a due album dei Moving Hearts) che ho avuto in questa specifica categoria. Il vinile lo comprai quando andavo al liceo, era Bob Dylan che incontrava la sezione ritmica della new wave inglese, uno dei più antichi reperti emozionali della mia esistenza, un suono che anche oggi posso ascoltare all’infinito senza riconoscere con precisione di cosa mi parla, di quali atmosfere di vita vissuta in una Torino invernale dei primissimi anni Ottanta del Novecento. Un’impressione appena accennata che non riesco a mettere a fuoco, un viaggio indistinto dove registro il massimo dell’inconsapevolezza rispetto a un passato che nonriesco a ritrovare. Intanto sto aspettando qualcuno che mi recuperi Stories of Adventure, l’altro grande album di Lee Fardon.

Stray Cats – Stray Cats Gonna Ball
Nell’agosto del 1999, sul maestoso lungomare di Santander, in Cantabria, sono rinato alla musica. Napster sta spopolando e la storia del rock inizia ad essere disponibile in edizione economica. Alla sera vado nei discopub a ballare Livin’ la Vida Loca, El Baile del Marciano e Loquillo, di giorno rinasco ufficialmente come storico dilettante della musica, ripigliandomi dopo un decennio di derive poco consapevoli e molto world.

Il terzetto guidato da Brian Setzer mi sembra la cosa più lontana da quelle che da giorni ho nelle orecchie attraversando tutto il nord della Spagna, da San Sebastian fino alle Asturie. Ma anche quella più simile all’idea di un ascolto immediato e accattivante e ben poco da approfondire. I primi due album degli Stray Cats insieme, anch’essi, come sarà diversi anni dopo con Lee Fardon, ad evocare soltanto una sensazione, senza luoghi né volti di riferimento. Il contrabbasso suonato da Lee Rocker come vago riferimento a un immaginario jazz decisamente vintage e dunque la voglia di ritrovare il passato, dopo un decennio trascorso arincorrere la novità ad ogni costo. E poi la scoperta sensazionale che in Ubangi Stomp e Storm the Embassy i maestri del nuovo rockabilly facevano ska! In quel periodo The Specials erano ritornati alla grande e ascoltando Stray Cats ritrovavo anche i loro primi pezzi.

Sugarcubes – Life’s too good
Questo cd l’ho avuto grazie al viaggio di qualcun altro. Tra il 2003 e il 2004 nei negozi non riuscivo a trovarlo. Mio cognato è svedese e così lo incaricai di cercarlo insieme a mia cognata in uno dei loro viaggi al Nord. Quando lo riascoltai pensai a quella fine degli anni Ottanta in cui uscì e della sensazione che ebbi all’epoca di non aver mai sentito nulla di simile. Un nervosismo sincopato che mi ricordava le sonorità dei Lounge Lizards, con quella tromba dissonante che contrappuntava la voce extraterrestre di Bjork. Come poteva esserci tanta serenità in quella voce immersa nel più caotico rumore degli strumenti? Comunque per almeno i sette anni successivi a quel regalo, il primo album dei Sugarcubes non sono più riuscito ad ascoltarlo con l’emozione di quella lontana prima volta. Me ne accorgo mentre scrivo, perché realizzo che soltanto scrivendone riesco a gustarne di nuovo tutta l’impressionante intensità.

The Moody Blues – Greatest Hits
Your Wildest Dreams e The Voice dei Moody Blues le ho ascoltate per la prima volta sulle colline di El Paso contemplando la città della Lonely Star in un’afosa notte d’estate dove il vento del deserto circostante rendeva l’atmosfera ancora più torrida. Avevamo fermato il Blazer su una curva della panoramica, lasciando la porta aperta con l’autoradio a manetta. I sogni più selvaggi di cui parla la canzone sono quelli che portano lo sguardo sull’orizzonte, una linea perfetta segnata dalle luci degli elicotteri della polizia che volano su e giù sopra il confine, dove El Paso diventa Juarez e le luci brillanti degli Stati Uniti d’America si interrompono bruscamente nel desolante grigio scuro della città messicana al di là del minuscolo Rio Grande. Di gran lunga l’esperienza musicale più intensa di tutta la mia vita.

Tony Joe White – Heroines
Fare un giro in giornata a Nizza partendo dalla Liguria è un’esperienza che faccio sempre volentieri con la mia famiglia. C’è stato un periodo, pochi anni fa, in cui per me andare a Nizza significava, dal punto di vista musicale, fare un giro alla fornitissima Fnac. A volte tutta la gita turistica era addirittura una scusa per poter passare una distesa mezz’ora tra gli scaffali dei cd lasciando che le mie figlie, controllate con la coda dell’occhio, si incantassero nel reparto dei film d’animazione. Incredibile a dirsi (perché Nizza è una delle città d’Europa in cui mi trasferirei più volentieri), ma il momento più magico di queste giornate era quello in cui si risaliva in auto per ripartire.

Non eravamo ancora usciti dal solito parcheggio della Promenade des Artes che il cd acquistato, prontamente tolto dal cellophan mentre mia moglie sistemava le bambine con le cinture di sicurezza, stava già girando sul lettore. Nel giro di qualche anno ci sono state oltre una decina di partenze come questa, scandite dall’eccitazione di un nuovo ascolto. La volta più memorabile fu quella in cui ascoltai ex novo Tony Joe White. Mentre le gallerie ci accompagnavano verso il confine italiano era come se il suono della chitarra lo stessi sentendo per la prima volta! Il suono “sporco” di uno strumento regalato al musicista della Louisiana nientepopodimeno che da Jimi Hendrix, almeno così dice lui. Era il suono più autentico del bayou, peccato che quando qualche anno prima feci la gita in battello delle paludi di Tony Joe White non avessi neppure sentito parlare.
Le sonorità graffianti della chitarra fanno da contrappunto a una voce dolcissima, che a sua volta duetta con quelle delle più grandi cantanti americane di oggi, da Lucinda Williams a Emmilou Harris, da Shelby Lynn a Jessi Colter. Tony Joe White ero io, in quel meraviglioso capodanno della seconda metà degli anni 2000, a ripensare l’America ma senza averne nostalgia, cullato dalla presenza delle mie donne tutt’intorno, in un’armonia perfetta tra due continenti musicali. La soavità esiste, si è rivelataappieno tra le luci d’inverno di una serata mite sopra il golfo di Mentone.

Neil Young – Dead Man OST
Quando mi capita di dover scrivere un libro, e sono i mesi più terribili della mia vita, divento un tossico. Quando scrivevo una monografia su Jim Jarmusch (edizioni Castoro) non mi bastavano tutte le mie pipe caricate e fumate senza sosta per calarmi in uno stato di trance creativo. Avevo bisogno della musica e, in particolare, della musica relativa ai film di cui stavo trattando. Così in un afoso pomeriggio di giugno lasciai nel bel mezzo della sua stesura il capitolo sul film Dead Man per andarmi a comprare la colonna sonora. Uscii di casa a piedi e andai dritto filato da Rock & Folk in via Bogino, comprai il cd, arrivai a casa, lo misi sul lettore e terminai tutto d’un fiato il capitolo. Un autentico viaggio mentale, per quanto mi riguarda una delle espressioni più compiute di sintesi tra l’opera d’arte e la sua elaborazione critica da parte dell’ascoltatore. Tranne casi rarissimi, detesto ascoltare picture soundtracks, a parte quando devo scrivere proprio di quei film, allora esse diventano insostituibili.

The Dubliners- Best of
La musica che tutti i Paddy d’Irlanda suonano in ogni pub dell’isola nei giorni del fine settimana. Il cd l’ho comprato in un negozio di souvenir di Clifden, Connemara, in mezzo alle cartoline, alle magliette con il trifoglio e i sottobicchieri della Guinness. E’ la musica suonata dal vivo nei pub con fisarmonica e chitarra: Whiskey in the Jar, Wild Rover e Dirty Old Town prima che arrivassero i Pogues e mettessero tutto sottosopra facendomi impazzire. Ma The Town I Loved so Well è la cosa più struggente che abbia mai ascoltato e a volte non ce la faccio nemmeno a sentirla.