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26 Marzo 2013 | Mute | Crimeandthecitysolution.com | ![]() |
Da che mondo e mondo, esistono reunion capaci di calamitare irresistibilmente l’hype con mesi d’anticipo, suscitando animazione e scalpore perfino tra profani o non cultori, e altre destinate a manifestarsi in sordina, senza strombazzamenti e proclami roboanti, ad uso e consumo d’una ristretta ma appassionata cerchia di estimatori. Alla prima categoria, tanto per fare un clamoroso esempio recente, appartiene l’ultimo, chiacchieratissimo My Bloody Valentine. Nella seconda, invece, non si possono che annoverare i gloriosi Crime & the City Solution, tornati improvvisamente alla ribalta dopo i 22 anni di silenzio discografico che distanziano questo American Twilight dall’ottimo Paradise Discotheque.
Non mi dilungherò a spiegare perché Simon Bonney, il frontman della band, è ritenuto a ragione uno dei personaggi più carismatici e intriganti della scena rock australiana; basti sapere che verso la metà degli anni ’80, dopo esordi interlocutori in patria all’insegna del solco maledetto dei Birthday Party, Bonney trasferì la sua band tra le spire livide e decadenti della Berlino dilaniata dal muro sovietico, e qui incise Room of Lights, uno dei massimi capolavori di quel blues gotico e paludoso che trova in Jeffrey Lee Pierce e nell’amico e mentore Nick Cave i suoi più significativi esponenti. Risalgono a questa fase d’opaco splendore la collaborazione con i Bad Seeds e gli Einsturzende Neubauten e sopratutto la comparsata nel film “Il Cielo Sopra Berlino” di Wim Wenders, in cui, come i più cinefili ricorderanno, Bonney si contorceva febbrilmente sul palco d’un night club, irretito dalle note della classica Six Bells Chime.
La determinazione geografica e temporale, quando si parla dei Crime e the City Solution, riveste sempre un’importanza imprescindibile. Se Berlino, nel contesto degli anni ’80 della Guerra Fredda, era lo specchiamento perfetto degli umori e degli aneliti che s’agitavano sotto i raggelanti psicodrammi di Room of Lights, la nuova collocazione scelta dalla band, la città statunitense di Detroit, è sintomatica per penetrare a fondo le precise scelte stilistiche e tematiche di cui si nutre American Twilight. Detroit è una città ormai in perpetua decadenza, dilacerata da innumerevoli fattori tra cui il default immobiliare, la violenza urbana, i conflitti razziali e il degrado metropolitano. Un vero e proprio far west moderno trapiantato in quella che, solo 60 anni fa, era una delle città più floride e popolose d’America. Detroit, però, era anche la capitale della leggendaria etichetta Motown nonchè la città che diede i natali all’incendiario Detroit Sound. Quale miglior scenario per orchestrare simbolicamente il declino d’un immaginario che è al contempo storico, culturale, umano e individuale?
Un proposito ambizioso, il cui coronamento sarebbe stato difficilmente possibile senza le collaborazioni illustri che costellano American Twilight, selezionate con cura per fornire un contributo funzionale al tipo di landscape sonoro che Bonney aveva in mente. Tra tutti spicca, alla chitarra, David Eugene Edwards dei 16 Horsepower, ma meritano sicuramente menzione anche Jim White (già membro dei Dirty Three) alla batteria e Troy Gregory (Dirtbombs) al basso.
La partenza caracollante con Goddess ci permette di inalare a pieni polmoni quell’aria ruvida e granulosa, satura di polvere e sudore, che avevamo già assaporato nei dischi dei Cult of Youth e dei succitati 16 Horsepower. My Loves Takes Me There scaraventa gli MC5 in una galoppata furibonda attraverso i relitti marcescenti della frontiera, tra corni mariachi ed inaspettate ariosità acustiche dal retrogusto gospel . Domina è una torrida ballad western che si strascica con piglio epico e solenne per 7 minuti. La cantilena crepuscolare di Bonney, il tocco vellutato della viola e i languidi slide chitarristici palpitano d’uno straripante senso di desolazione impastato di dolcezza elegiaca. The Colonel , con le sue atmosfere thriller allucinate, rarefatte e scheletriche, suona quasi come una concessione al passato berlinese della band. Ovviamente il caratteristico baritono di Bonney, teatrale e melodrammatico, qui sfodera la sua interpretazione migliore, alternando declamazioni invasate a bisbigli e sussurri quasi narcotici. L’ingombrante spettro che aleggia per tutta la durata della canzone non poteva che essere quello della più grande figura sciamanica della storia del rock: Jim Morrison.
Dopo le convulsioni blues febbrili e nevrotiche di American Twilight (emblematico il video che mostra l’abbandono e la spaventosa incuria di alcune zone di Detroit), giunge a sorpresa la terza ballad nonchè l’episodio conclusivo del platter: Streets of West Memphis. L’intero brano è quasi monopolizzato dalla levità carezzevole degli archi e da un radioso duetto con voce femminile che riesce nell’intento di risultare toccante senza essere svenevole. Le asperità elettriche sono confinate ai sussulti del catartico finale, a rimarcare l’incrollabile fiducia nell’avvenire che pervade questo American Twilight a dispetto degli spigoli e delle ombrosità.
Un disco solido, che compensa la mancanza di innovazione con una scrittura sapiente e viscerale, nel segno di tutti quei cantautori, da Stan Ridgway a Scott Walker, che hanno ravvisato nel grande agglomerato urbano moderno un torbido far west dell’anima. Non si poteva chiedere di più ad una rimpatriata di vecchi cowboy acciaccati da anni di cavalcate solitarie.