Reviewlution: My Bloody Valentine – m b v

Reviewlution nasce per dare l’opportunità a tutti di farsi un’idea sulla critica che un disco ha ricevuto, senza affidarsi ad un’unica voce o spendere tempo e soldi in una ricognizione dispersiva. Lo facciamo noi per voi, ma, in cambio, ci concederete qualche sfottò ai nostri amici del giornalismo musicale senza stare troppo a farci sentire in colpa. Reviewlution è LA risposta alla domanda: “Beh ma insomma, questo disco, alla fine com’è?!”

L’Analisi

Si può partire tranquillamente dall’osservazione lapalissiana del buon Claudio Lancia nella sua recensione del disco per Ondarock (7/10) “Il destino di questo disco è quello di dividere: gli appassionati della band lo idolatreranno per il resto dei loro giorni, i detrattori lo faranno a pezzi senza pietà”.

Il problema è che di detrattori, che chiama all’appello anche Rocklab nella sua recensione, o nasi contorti, nel giudicare il seguito, a 22 di distanza, di Loveless, proprio non se ne trovano. Con poche sfumature, che qui proveremo a raccontare, il disco è promosso all’unanimità, dai massimi voti di The Guardian (5/5) e Pitchfork (9.1/10) o, in Italia, Il Mucchio Selvaggio (8,5/10), una sfilza di 8 in pagella (compreso il nostro di Michilista su Rocklab, in buona compagnia di NME, Spin, Uncut, Q e Allmusic.com ) mentre tra i più schizzinosi come le webzine italiane Storiadellamusica.it e, appunto, Ondarock, non vanno oltre il 7.

Il problema è che generazionalmente parlando, alcuni dei recensori di oggi hanno visto la loro adolescenza marchiata a fuoco dai tremolo di Loveless, gli altri, più giovani, hanno fatto presto a capire, dalla messe di band che dal 1991 in poi citavano o attingevano allo shoegaze, che i My Bloody Valentine sono stata l’ultima band rivoluzionaria di cui era facile mandare a memoria la discografia, di appena due dischi, e in epoca Napster questo ha dischiuso le porte della coolness pret a portet a tanti tuttora devoti.

Ecco perché la quasi totalità delle recensioni iniziano senza resiste dall’indulgere sdolcinato nel legame personale, nel ricordo del primo impatto con Loveless, nel riallacciarsi di una storia interrotta 22 anni fa che sembra ricominciare adesso come se nulla fosse, nell’attesa del “Chinese Democracy dell’indie rock”  come definito da Gianni Sibilla (Rockol, 4/5) e Lorenzo Desidera (Impattosonoro). Sembra accorgersi di questo peso, di affetto e aspettative, Anthony Fantano (light 8/10), quando propone di prestare ascolto a “m b v” come si trattasse di un film, escludendo il profilmico e lasciandosi trasportare dalla storia. Non si può ignorare che, pur se il fascino dell’album va caricandosi elettricamente della sua stessa storia, è, in fin dei conti, la musica stessa dei My Bloody Valentine, ad essere di per se evocativa, sfocata e torbidamente eterea, così da prestarsi particolarmente al gioco della nostalgia e del trasporto emotivo, è la sua essenza cinematica a fare da trama.

In questo senso, dice bene Mark Richardson nel suo pezzo per Pitchfork “There’s a rush of feeling inside their music so intense it creates a kind of paralysis. Music swirls and moves in and out of phase, voices float by, half memory and half anticipation, and you’re never quite sure how all the parts fit together.” Metà memoria e metà anticipazione. Fabio De Luca, vicedirettore di Rolling Stone Italia, nella cronaca del suo primo ascolto riferisce della strana sensazione di ascoltare canzoni assolutamente nuove e perfettamente vecchie. Sono in molti concordi che il disco suona esattamente come avrebbe dovuto suonare. Forse anche troppo. Ma, come si vedrà, mantiene in se i batteri fossilizzati dei Valentines che sarebbero potuti essere.

Se passiamo infatti all’analisi dell’album, ritroviamo questo aspetto della temporalità. Sono in molti infatti (Richardson su Pitchfork, Lancia su Ondarock, Chiara Colli sul Mucchio) a sottolineare la struttura tripartita dell’album, in tre gruppi di tre canzoni. Leggendo le varie recensioni possiamo estrarre noi, da ciascuna, triade, le tre canzoni più significative dell’album, per farsi un’idea delle sue sfaccettature.

I Brani

Le prime tre tracce sono una chiara coda di Loveless e delle sue sonorità noisy. Tra queste la prediletta sembra essere già dal titolo “Only Tomorrow” che nel suo rimandare alla prima traccia di Loveless, Only Shallow, (come nota Fabio De Luca) e riferirsi ad un domani esclusivo sembra suggerire proprio quel metà memoria e metà anticipiazione di cui sopra. Il terzetto centrale – per alcuni (Claudio Lancia per Ondarock ma anche Anthony Fantano) la parte più debole, per altri (Franz Bungaro, Storiadellamusica) la più fresca – ha la caratteristica di essere spiccatamente più pop, più lieve e anche più pulito, più femmineo, diremmo, visto che alla voce c’è sempre Bilinda Butcher, e trova la sua summa in “New You”. Se Lancia la bolla come il brano più debole del disco, Michilista su Rocklab e Richardson su Pitchfork la riconoscono come l’unico potenziale singolo a presa (relativamente) rapida. Interessante in merito su Pitchfork sottolineano come il brano segni uno squarcio sul presente, rimandando al momento della sua scrittura, un momento cruciale della band, subito dopo Loveless, in cui i Valentines erano una vera pop band con videoclip e copertine di magazine che incidevano per una etichetta considerata alla moda, con la relativa pressione a riguardo che probabilmente li spinse a pensare di avere un ruolo nel contesto pop di allora, scrivendo dei veri singoli, sperabilmente destinati a diventare hits nel 1991, ben diverso dall’appeal commerciale che può avere oggi l’uscita di “m b v” che viene pubblicato autoprodotto.

L’album si chiude con i tre brani più sperimentali e psichedelici del disco, rivelando quella che “sarebbe potuto essere” la direzione del sound della band di Kevin Shields dopo Loveless. Il brano di riferimento non può che essere Wonder 2, che chiude l’album, e riguardo al quale, più di un commentatore rammenta l’indizio che Shields aveva dato sul nuovo materiale usando la parola “jungle”, facendo riferimento più che al genere ad un sofisticato groviglio sonoro che ha affascinato i più. Se Richardson la paragona a LA Blues che chiude Fun House degli Stooges, per Ondarock si tratta dei “minuti più esaltanti, folli e senza redini dell’intero disco” e altrettanto chiaro è Michilista “qualcosa di simile ad un rave party drum’n’ bass tra marziani su un ufo alla deriva nella stratosfera. Ossessiva ai limiti della cacofonia, implacabile, lisergica, delirante, apoteosi sublime d’ un modo unico ed irripetibile di concepire l’approccio alla musica psichedelica”. Meno eccitante per Franz Bungaro che la definisce confusa e caotica.

I Riferimenti

Quanto ai riferimenti citati nelle recensioni trattandosi di una band ormai storica e avendo fatto un disco che alcuni non esitano a definire “autoreferenziale” non ce ne sono molti. Rocklab, Ondarock e De Luca su Rollingstone.it colgono l’accostamento di un brano come Is This And Yes con una band sin troppo sottovalutata, come gli Stereolab. Sembra far centro anche Anthony Fantano quando per descrivere l’ultima parte del disco si affida alle alchimie sonore dei più moderni Panda Bear e Animal Collective, per, insieme, dare un’idea modernista e germinale del sound più sperimentale dell’album. Altrettanto utile è il riferimento, stavolta storico, che fa Emiliano Colasanti su Rolling Stone, paragonando l’uscita di “m b v” a quella del leggendario Smile di Brian Wilson: il disco-leggenda, decontestualizzato e privato della sua portata storica, rivela ancor più chiaramente il livello qualitativo della scrittura in sé.

Riferimento più assurdo

La palma del riferimento più assurdo stavolta la diamo a Franz Bungaro che su Storiadellamusica.it sostiene di sentire in In Another Way “la chitarra di Tom Morello dei Rage against the machine che ti appare in sogno a comunicarti il nuovo sodalizio amoroso con Satomi Matsuzaki, la voce nip-pop dei Deerhoof”.

Conclusioni

Alla fine dei conti di un giudizio unanime è positivo. Qualche critica sul fatto che si tratti di direzioni non del tutto sviluppate, di abbozzi di nuove sonorità, discorsi interrotti (Anthony Fantano pare fare questo appunto) ben spiegata anche da Bungaro quando evidenziando le due anime perfettamente fuse nei mbv, una più lieve e mielosa e l’altra più ostica e scura, spiega che “m b v” nei “suoi variegati momenti, estremizza queste due facce rompendo in parte l’incantesimo del suddetto canone di perfezione alla ricerca di qualcosa che non venisse percepito come banale ripetizione o tombale autocelebrazione”

D’altronde, come fa notare Anthony Fantano nelle sue recensioni video su The Needle Drop, la pubblicazione di “m b v” rivela come, per quanto innumerevoli band si siano ispirate a quel suono, nessuna abbia sviluppato appieno la lezione dei My Bloody Valentine e un loro disco sia ancora capace di essere unico e perfettamente riconoscibile. E ai detrattori non rimane che chiosare con un: solo un grande album.