Cloud Control – Dream Cave

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Animali insoliti o band vicino alla svolta? Il ritorno dei Cloud Control convince ma non troppo: il solito dilemma tra poliedricità e anonimia.

Dell’Australia se ne parla generalmente solo a proposito di animali insoliti, continenti perfetti e band che ogni tanto se ne escono con qualcosa di buono. I Cloud Control rientrano per l’appunto in quest’ultimo caso (magari anche nel primo, ma non ci interessa): dopo un esordio nel 2010 che li ha portati a vincere il corrispettivo australiano del Mercury Prize, rieccoli con undici brani che convincono sin dal primo ascolto per la loro freschezza e armoniosità. Da qui a dire che sia il miglior disco dell’anno ce ne passa, ma guardiamo con speranza alle future pubblicazioni di Alister Wright e soci, che con un po’ più di autodeterminazione potrebbero definitivamente distinguersi dalla solita schiera di gruppi che sembrano fare la stessa roba.

Questa volta, il loro cosiddetto psych-pop si è andato a rotolare sulle verdi colline del Kent, sporcandosi (in senso buono) di brit-pop anche grazie all’intervento di Barny Barnicott, già produttore con Arctic Monkeys e Franz Ferdinand. Oltre ai singoli ‘Dojo rising’ e ‘Scar’, oculatamente scelti, spiccano ‘Promises’ e ‘Moonrabbit’, due pezzi che a sentirli non sembrerebbero appartenere allo stesso disco (e probabilmente neanche alla stessa band): il primo con un riff corposo e deciso in stile Animals, il secondo più Beach Boys causa ipermelodicità e variazioni improvvise, sono comunque buoni esempi di direzioni che i Cloud Control potrebbero intraprendere. L’importante è che ne prendano una tutta loro, ecco.

[schema type=”review” name=”Cloud Control – Dream Cave” author=”Sara Manini” user_review=”4″ min_review=”1″ max_review=”5″ ]