Metti una serata al Monk, per assistere allo Psych Fest in compagnia di amici incontrati per caso, e soprattutto in compagnia di cinque gruppi assai diversi, per non dire diversissimi, in fatto di stile musicale. Diversi, l’abbiamo detto. Eppure accomunati da un’unica passione, quella per la psichedelia. Adesso, spiegare cos’è la psichedelia potrebbe sembrare presuntuoso. Fior fior di giornalisti, infatti, e anche di storici, hanno scritto di tutto sulla materia. Sul perché. Sul percome. Sulla nascita. Sull’ evoluzione. Sulle correnti. Ma se dovessimo raccontarlo a dei profani (perché si è sempre profani, badate bene), potremmo usare l’intramontabile metafora del cocktail.
Perché è vero: gli ingredienti contano. Ma per il bevitore medio, per l’utilizzatore finale (tanto per ricordare un noto politico barra imprenditore lombardo, famoso per le sue serate orgiastiche a Palazzo Grazioli: una citazione nonsense, così, perché anche il nonsense è psichedelico), quello che conta di più è l’effetto. E quindi la sbronza. O comunque quel vago senso di sbronza che ti mette in pace col mondo e coi tuoi demoni, che ogni tanto si risvegliano, ma solo per farti eccitare. Mica per altro.
Cerchiamo di riprendere il filo, anche se è difficile. C’era un concerto, sabato scorso. Ce n’erano cinque al prezzo di uno, ad essere precisi. C’era il Rome Psych Fest. O meglio, c’era l’anteprima, ché il festival vero comincia ad Ottobre. E noi eravamo al Monk. Un locale dell’Urbe, lì nel suo cuore Tiburtino. Ci si arriva attraverso Via del Portonaccio, se vieni dalla stazione. Via del Portonaccio, poi a una certa tocca girare, con gli alberi pizzuti del Verano che si offrono al panorama dei passanti periferici, comunque distratti. Roma uguale Amore. Roma uguale Morte. “To Rome with Death”, potremmo dire, storpiando Woody Allen (il titolo di un suo film, mica lui). Ma se il nostro fosse un film erotico, allora si chiamerebbe “Cinquanta sfumature di Psych”. Però non so. Magari è troppo. Forse è meglio tornare alla metafora del cocktail. Ebbene, di quali ingredienti parliamo? Cinque gruppi, uno più diverso dell’altro. Il programma aveva in scaletta i Weird Black: un liquore delicato, un Maraschino, ottimo per fare dei dolci, possibilmente nascondendoci la droga. E poi i Giobia: roba per stomaci forti, roba per intenditori, un whisky di quelli roventi, invecchiato fra le fiamme dell’Inferno (dico così perché malgrado l’esperienza alcolica pluridecennale non capisco ancora un cazzo di whisky). I Go!Zilla: una birra rinfrescante, una birra ad alta gradazione, una birra che contiene altre birre in sostanza. Poi, come se non bastasse, c’erano anche i Wow: un vino rosso, decantato in un vasetto d’ectoplasmi, che cela il sentore di frutti avvelenati. Ultimi ma non ultimi, i Sonic Jesus. E quando chiami in causa Nostro Signore di Nazareth il vino sarebbe d’obbligo. Ma se parliamo della band laziale (in senso geografico, non certo calcistico), allora vedi bene che abbiamo trovato l’oliva del nostro cocktail. Nera, nerissima, probabilmente sbagliata. Che col suo sapore intenso rischia di coprire tutti gli altri ingredienti. Ecco, non so voi, ma io un cocktail con Maraschino, whisky, birra, vino rosso e olive nere non lo berrei mai. Nemmeno se a offrirmelo fosse Gesù Cristo in persona. Detto ciò, questi sono i gruppi che abbiamo visto esibirsi sul palco, in ordine di apparizione e sparizione.
I palchi, a dirla tutta, erano due. Uno più piccolo, uno più grande. Molto rapido, quindi, l’avvicendarsi dei gruppi. Finiva uno, il tempo di un cocktail, ed ecco che attaccava un altro. Per primo, si sarà capito, ci siamo sgargarozzati il liquore dei Weird Black. Ed è bene ricordarselo, anche perché il resto della serata, nella zucca dei ricordi, giace alquanto confusa. Alla voce Luca Di Cataldo, che è anche chitarrista e autore. Ci ha stupiti col suo pedale Ravish Sitar, che pareva un synth. “Lo uso per dare un po’ d’ambiente”, ci avrebbe detto più tardi, fuori dal locale (sia detto per inciso: il Monk è un vero e proprio tempio del divanetto, altro che Poltrone Sofà). “La nostra è una psichedelia molto semplice, poco complessa, quanto meno nel suonato”. Ha dichiarato Luca durante il concerto. Una psichedelia balneare, aggiungiamo noi, più che da Canterbury. Allegra ma un po’ timida. Floreale ma anche ruvida. Un acido calato in roulotte, con l’acqua per la pasta che sale sul fornello elettrico. Su tutte, ci è piaciuta “Moontrees”.
Dal palco piccolo, poi, siamo passati a quello grande. E già qui il senso dell’orientamento ha iniziato a vacillare. Colpa soprattutto dei Giobia. Una band che mischia shoegaze, stoner, e space-rock. Il cantante, avvolto nei suoi capelli come il Cugino Itt (quanto lo capisco), ha sfoggiato un delay vocale degno dei Killing Joke. Echi canori, ma anche echi del progressive nostrano. E quale sarà Il Rovescio della Medaglia? Eccolo servito: un sound granitico e allucinante al tempo stesso. Dal deserto fino al ventre dell’universo. Un cocktail idealmente brandito dall’ominide di “2001: Odissea nello Spazio” di Stanley Kubrick. C’era anche una voce femminile, mi pare. Capelli a caschetto, alla Anna Karina. Ma poi sul palco si è riversato tanto di quel fumo nebbioso che non si vedeva più niente. Avete presente “The Mist”? Per la serie: occhi rossi sul pianeta terra. Dopo tanta perdizione, fortuna che sono arrivati i Go!Zilla a farci sculettare un po’, stavolta sul palco piccolo. Armonie sixties, percussioni punk, piglio grunge e fuzz a non finire. Sembrano i Loveless Whizzkid da Catania. E invece no. Sono i Go!Zilla, e vengono da Firenze. Il chitarrista indossava una t-shirt della Yippee Ki Yay Records. “Yippee Ki Yay” che poi sarebbe anche il celebre motto della saga di “Die Hard”. Se anche loro, come John McClane, saranno duri a morire, ne sentiremo delle belle.
E cosa dire degli Wow? “Amore”, il loro precedente album, ci aveva in qualche modo affascinato. In quest’occasione, sul palco principale del Monk, allestito per il loro show con degli appositi ornamenti scenografici (pareva una specie di serra), ci hanno aperto le porte del loro nuovo “Millanta Tamanta”, in un vortice fantasmatico di crescendo ritmici, passaggi di tonalità, e una voce che come una farfalla roboante s’ingrossava di fiore in fiore, pescando fra Mina, Patty Pravo, e Marcella Bella. E poi tastiere simili a un moog. Un violino elettrico perso nell’impasto sonoro. Una mistura di riferimenti colti. La freddezza degli Slapp Happy unita al calore del beat italiano. Si può fare? Il dottor Frankenstein sarebbe d’accordo. Piccola nota a margine: sono stati gli unici a cantare in italiano.
Parlando in generale, ci son stati dei problemi a livello fonico, che hanno penalizzato soprattutto le voci. Vale per tutti. E purtroppo vale anche per i Sonic Jesus: la ciliegina sulla torta, o meglio, l’oliva del nostro cocktail. Nera, nerissima. Più nera di Teho Teardo e Blixa Bargeld messi insieme. Impeccabili, davvero, come li avevamo lasciati all’Auditorium Parco della Musica poco tempo fa, in quella splendida esibizione. Il loro è un garage da incubo, che sa di sottoscala, di scantinati fuori dal raccordo anulare, dove si coltivano solitudini e paranoie, ma dove i sogni di gloria, nonostante tutto, sono ancora a portata di plettro. Sono saliti sul palco grande che era ormai l’una passata. Eravamo stremati e confusi. Ma ci siamo abbandonati al flusso, che poi è la cosa migliore. Nient’altro che questo: sbronzarsi, trovare un po’ di pace, e abbandonarsi, svanendo nella notte. Nient’altro che questo: Roma Capitale Psichedelica. E chi se l’aspettava?