Come un’oasi vacanziera, spuntata a mo’ d’arcobaleno fra le scosse degli ultimi temporali, la due giorni di venerdì e sabato dello Spring Attitude, presso l’Ex Caserma Guido Reni di Roma, ci ha stregati e ci ha indotto ad allentare la presa, lasciandoci cullare dal flusso di facce, di gesti, di suoni. Maledetta Primavera.
Venendo dall’entrata, nella notte di venerdì, si potevano ammirare grumi di gente, felicemente sparsi qua e là, lungo il viale alberato che costeggia i reparti della caserma. Dismessi, riallestiti. Da una parte e dall’altra. A sinistra i concerti. A destra le installazioni, le mostre, i camerini. Lo Spring Attitude, una sorta di spring break alla romana. Uno spring break a misura di sdraio, di sintetizzatori, di Bacco & Tabacco. Di luna che si affaccia dal cielo. E di pelle che inizia a scoprirsi. Impressioni di maggio. Di un maggio che pareva già Estate, nelle note di Jessy Lanza, che ha aperto le danze sul Main Stage.
La trentenne canadese, armata di Prophet 6 e Korg Kontrol 49, ha eseguito gran parte del suo recente album “Oh No”, col contributo ritmico di una batterista infallibile, che indossava un berretto con su scritto “SLEEP”. Ma la notte era ancora giovane. Ancora pischella, come diremmo a Roma. E noi, da veri e propri sottoni della nightlife, ci siamo spostati nella sala adiacente, assai più piccola, quasi un ripostiglio, per assistere alla performance dei danesi Lust for Youth: tre ragazzi, dall’età piuttosto indecifrabile (25?30?35?Boh!), fautori di una electro-wave solida e ballabile, in cui si ravvisa l’impianto ritmico e armonico di Pet Shop Boys e Depeche Mode (“Enjoy the silence” su tutte), ma anche un’inclinazione al fraseggio chitarristico di Johnny Marr, mentre Hannes Norrvide, leader e frontman del progetto, dal vivo ci è parso un curioso Joe Strummer prestato all’elettronica: voce strascicata, ebbra di stonature punk, ma anche con una certa sostanza old-school. Recuperate la loro discografia, che merita davvero, partendo magari da “Compassion” (2016).
Poi, uscendo dal Rizla Stage, siamo tornati verso il palco principale per assistere ai minuti finali del set di Jessy Lanza, in leggiadro zapping fra la lussuria dark degli scandinavi e la solarità estiva di questa giovane cantante che, malgrado alcune stecche in zona falsetto, si è dimostrata padrona della situazione. E anzi, possiamo dire che la sua musica, rispetto agli arrangiamenti presenti sul disco, ha guadagnato più corpo, più timbrica, coinvolgendo il pubblico oltre ogni aspettativa. Ci sono state due grandi sorprese, all’interno di questa rassegna: Jessy Lanza è stata la prima.
Quanto al pubblico, nelle prime esibizioni ha latitato un po’. Forse perché preso da altro: dagli stand gastronomici, dalle chiacchiere sul vialetto, dall’irrefrenabile malia delle sedie a sdraio. Magari qualcuno stava ancora parcheggiando, perso nel quartiere Flaminio. O magari aveva sbagliato indirizzo, pensando che l’evento fosse al Maxxi, proprio dirimpetto (come all’apertura di giovedì: una notte al museo). Gente più fuori che dentro, a farla breve. Un andazzo che è migliorato con le successive esibizioni di Rone (Main Stage) e Dorian Concept (Rizla Stage). E proseguendo col nostro zapping fra un palco e l’altro, abbiamo anche avuto modo di captare alcune voci di corridoio, in fregola per uno dei live di mezzanotte: “Aoh, tutti vonno vede’ Cosmo! Sarà er pienone! Sarà ‘na bomba!”. Ma varcata l’ora delle streghe, anzi quasi verso l’una, il delirio è stato tutto per Pantha du Prince e per le tracce dell’album “The Triad”( tre anche i musicisti sul palco): elettronica d’alta classe, con un sapiente uso dei tempi e delle pause, dei pieni e dei vuoti. Ne avremmo discusso in seguito con un signore, durante una piccola pausa-sdraio: “Rone è troppo ancorato agli anni ’90, usa trucchi vecchio stampo, è tutto un affastellarsi di suoni, di ritmiche scontate, sono cose che non stupiscono più ormai. Vuoi mettere con l’eleganza di Pantha Du Prince? Less is More! Less is More!”. E alla fine, ridendo e scherzando, nel giro di 90 minuti abbiamo visto tre fra i più acclamati compositori d’elettronica europei: Dorian Concept, Rone, e Pantha du Prince. Un austriaco, un francese, e un tedesco. Tranquilli, non ci sono barzellette in arrivo. Anche perché all’appello mancherebbe l’italiano di turno, che comunque di lì a poco sarebbe salito sul Rizla Stage. Ci riferiamo ovviamente a Cosmo, pupillo della 42 Records. “Astro nascente”, come canterebbe Niccolò Contessa nella sua “Non c’è niente di Twee”. E infatti il suo stile guarda tanto all’elettronica quanto al pop. Giunto in ritardo, con la saletta gremita, ha subito scaldato il pubblico suonando “Cazzate” e “L’ultima festa”. Ma non si respirava. Pertanto siam dovuti evadere, rimediando occhiatacce e facendoci più di un nemico, nel tentativo di attraversare il carnaio che s’era creato.
Tornati sul vialetto, abbiamo recuperato un po’ di pace, e anche un po’ di sana Spring Attitude, prima che si avventasse su di noi il blob sonoro, frutto di campionamenti e collage di nera africana, dell’italianissimo Clap!Clap!, e prima che DJ Tennis (sempre sul Main Stage) ci spingesse verso orari che manco il cornettaro notturno. Insomma, siamo rincasati che era mattina. Qualche ora di sonno. E poi dritti verso la pomeridiana di Sabato. Più morti che vivi.
Alla luce del giorno, la caserma sembrava la location perfetta per un film post-apocalittico: morti viventi, appunto, dietro le vetrate di un edificio dismesso. Ma certe paranoie distopiche sono scomparse grazie a un sole benevolo, alla birra, e ai dj set del Rizla Open Air Stage, che ci avrebbero allietato dalle 15 in avanti (ma sarebbe dovuto partire tutto alle 14). E se Jessy Lanza è stata la grande sorpresa del venerdì, la sorpresa di sabato è stata senza dubbio il viterbese Lamusa: magrissimo, in camicia bianca, e con gli occhiali da sole. Un’elettronica, la sua, sexy e insieme rilassante, con accenti crepuscolari. Ma qual è la Musa di Lamusa? Forse la nostalgia degli anni ’80, e dei giocattoli sintetici di allora. Detto ciò, abbiamo occupato la postazione sdraio a bordo palco, memori del Franco Battiato di “La Voce del Padrone”. Senza palme però, ma con bambù e contorno di frasche a suggerirci scorci d’azzurro. Un’oasi nell’oasi. E con piglio atarassico ci siamo gustati la disco-house di Kristal Klear (doveroso l’inserimento di “You make me feel (mighty real)” di Sylvester), e la nera africana (di nuovo) dell’audace Young Marco (con la maglia dell’ufo: I WANT TO BELIEVE!). E dopo la disco-volante ci siamo diretti verso il Main Stage per ascoltare i Go Dugong (un hip-hop modernista niente male), concludendo così il nostro viaggio di quasi 24 ore in questa sorta di Expo Electro-Art-House: il Contemporaneo come evento condiviso che prende spazio fra vecchie macerie (la caserma dismessa). E dunque siamo fuggiti, con le tasche gonfie di cartine Rizla, il cranio che rimbombava di bassi, e un cuore a forma di sdraio. Più Spring Attitude di così …