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‘Load’ e ‘Reload’ furono accolti dai fan dei Metallica con la gioia con cui si accoglie un calcio nelle palle. Poi la campagna di James Hetfield e Lars contro Napster fece il resto. ‘St.Anger’ doveva suonare come “eccoci, siamo tornati” e invece suonava come “eccoci, siamo diventati malati mentali”, e con tutta la buona volontà che ti restava era davvero non facile ascoltare quella sequela autoreferenziale di riff scollegati: un baraccone per fare soldi, suonato da una batteria di pentole.
Tarda notte di un venerdì qualunque passato a casa. Mtv. Mandano il video nuovo. Non l’ho ancora visto e me lo vedo con piacere. Finisce, e io penso quantomeno che i Metallica siano tornati in sintonia con un sentire metal old school quanto basta, arrabbiato quanto non era lecito aspettarsi, meno noioso e senza spina dorsale di quanto invece sarebbe stato lecito aspettarsi da una band che si avvia a grandi passi verso l’età dei reumatismi.
E questo non è un male, intendiamoci, è solo il tempo che passa. Forse, andando avanti così, la nostra generazione avrà una rock-band di idols dotata di un fine carriera decente, di cui potersi vantare con i nipotini (che non avremo).
Ma veniamo senz’altro al disco. Per alcuni brani e passaggi l’effetto nostalgia-polpettone riscaldato della sera prima è – ahinoi – inevitabile. Tuttavia a partire da The Day That Never Comes le cose iniziano a girare, e ricompare un po’ di ispirazione e di autenticità. Non è affatto vero, come è stato detto, che il disco stanchi dopo la sua prima metà, anzi tende al contrario e miracolosamente a crescere, e va a provare inconfutabilmente che i dischi andrebbero pure ascoltati prima di parlarne, possibilmente senza telefonare nel mentre alla propria fidanzata.
In fin dei conti, destreggiandoci tra qualche cliché inevitabile e non facendo caso a qualche comicità involontaria (l’intro per piano e tromba di The Unforgiven III è qualcosa di musicalmente inutile, retorico e raccapricciante, più e ancora del titolo) ci si imbatte anche in qualche brano di spessore. Si scapoccia per davvero almeno due volte (sulla bella coda del singolo ad esempio), si sorride altrettante. Si sente un po’ di sana furia distruttrice (“the slave becomes the master” pronunciata da Hetfield negli ultimi minuti di The End Of The Line spilla rabbia vera) e alla fine ci si diverte pure. Il disco scorre piacevole dall’inizio alla fine e rimane nel lettore più di quanto credessi ai primi ascolti.
Nota di merito per la bellissima traccia strumentale Suicide & Redemption, che non riesce ad annoiare nonostante i suoi dieci minuti dieci di durata, e per la furiosa My Apocalypse, che conserva più di qualche sentore del primo thrash battuto dalla band: uno dei pezzi migliori del mazzo, in punta di disco.
Sono ritornati i brani da sette minuti, gli assoli più o meno virtuosi del più o meno bravo Kirk Hammett (i più maligni dicono per andare a finire dritti dritti nella prossima versione di Guitar Hero, che si sa, sono bei soldini). Ci sono anche le doppie chitarre, le cavalcate thrash e le code assassine, e Lars che batte sui tamburi come una scimmia.
Box a parte meritano le colpe di Rick Rubin, colpevole a mio avviso di aver ripulito eccessivamente i suoni, regalando al disco un feeling eccessivamente ”da studio”, e colpevole inoltre, e in maniera reiterata , di aver svolto negli ultimi anni un’operazione di omologazione del metal, facendo suonare i Metallica così come gli Slipknot, i System Of A Down, gli Audioslave, i Rage Against The Machine, in funzione di un suono ipercompresso e tutto volumi a cannone, a favor di Ipod e di quanto ne concerne.
In conclusione, qualcosa di più era forse possibile fare, ma qualcosa sembra essere tornato al suo posto. Piaccia o non piaccia, per me è sufficienza piena, con un più per la buona volontà. Amen. Dategli un ascolto, senza pregiudizi. Lo merita.