Pj Harvey – Let England Shake

Acquista: Data di Uscita: Etichetta: Sito: Voto:
14 Febbraio 2011 Universal pjharvey.net

The Glorious Land

L’ultima volta che abbiamo visto l’Inghilterra letteralmente “scossa” è stata questa: la limousine di Principe Carlo e regal consorte aggredita da una folla di studenti infuriati. Pregasi notare l’espressione dei due eccellenti shakerati, più che spaventati effettivamente stupiti di ritrovarsi a un palmo da quel “malcontento popolare” di cui sentivano dire dai tempi dei loro avi.

Eppure, qualche mese prima, in uno studio della BBC, Pj Harvey aveva già cercato di ammonire gli alti piani, “cantandole” al primo ministro inglese Gordon Brown durante l’Andrew Marr Show. Il brano è una versione ancora approssimativa di Let England Shake costruita su un sample di Istanbul (not Costantinople) dei Four Lads, e la vede indossare (letteralmente) i panni del menestrello sassone, con tanto di arpa elettronica – uno strumento che starà alla base del disco allora in registrazione.

Che si ricordi, questa è la prima volta in cui Polly Jean rivendica a gran voce la propria “inglesità”. Proprio lei, americana in pectore, con la testa sempre rivolta ai bluesmen e indierockers d’oltreoceano, decide a prendere sul serio i suoi natali solo passato il quarantesimo compleanno. Lo fa non solo negli aspetti lirici-estetici (già White Chalk giocava con un immaginario più antichizzante e citava, fra gli altri, le conterranee Bronte e la poesia elegiaca inglese), ma anche e soprattutto nella sostanza, una volta tanto decisamente politica. I testi di Let England Shake, Glorious Land, England, On Battleship Hill sono una chiamata alle armi o forse, ancora di più, un diario di guerra: pagine che osservano la patria mentre costruisce sul sangue dei campi di battaglia la propria “gloria”. Su quello che si potrebbe bollare come folk elettrico – ma prendetela con le pinze – i versi restituiscono l’immagine di un’Inghilterra arcaica, bellicosa e imperialista, profondamente legata ai suoi vecchi possedimenti coloniali (la Giamaica nel reggae di Written on the Forehead, l’America con cui si scambia significative “effusioni” nella già citata Glorious Land), e, proprio per questo, antica e contemporanea insieme.

Anche se la tripletta che due decenni fa inaugurava la sua carriera dovesse restare impareggiata, la recente alternanza fra sortite morbide (White Chalk) e più ruvide (Uh Huh her, il confuso ma irruente disco firmato con Parish) basta e avanza per sgombrare il campo da tutte le accuse di “rammollimento”. Questa nuova veste politica restituisce la cantante del Dorset in un equilibrio ancora nuovo, e chiarisce che la vecchia Polly non ha affatto ritratto gli artigli, ha solo imparato a graffiare. Dio salvi la regina, se ci riesce…