Black Label Society – Hangover Music vol. VI

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Non c’è che dire, Zakk Wylde sa sempre come stupire.
Dopo il buono – anche se a mio avviso troppo altalenante – “The Blessed Hellride”, è giunto finalmente il sesto capitolo della saga Black Label Society, intitolato “Hangover Music Vol. VI”, e devo confessare che è proprio l’album che non mi aspettavo, anche se forse alcuni pezzi del precedente lasciavano presagire qualcosa del genere. Una delle cose che più apprezzai da “The Blesssed Hellride” furono i pezzi più lenti, delle ottime ballad crepuscolari che rivelavano tutto l’amore di mr. Wylde per il blues e il southern.
Bene, “Hangover Music” è praticamente costruito per intero lungo queste coordinate: Zakk limita la sua usuale, dirompente potenza – in un’intervista per un magazine americano ha esplicitamente dichiarato che questo non è «un album per scatenare l’inferno» – in favore di quindici brani composti appositamente per emozionare in cui ampio spazio viene lasciato alle parti acustiche e di piano, un pò come sul vecchio “Book of Shadows”. Insomma, avete capito bene, qui Zakk “pesta” giù duro solo quando strettamente necessario e questo non è un album da headbanging.
Al contrario, le atmosfere che meglio definiscono “Hangover Music” sono quelle più crepuscolari e malinconiche, ma non pensiate che la sua mitica Les Paul sia relegata a un ruolo secondario: le sue note aspre e ruvide si intonano sempre alla perfezione con la voce del nostro eroe, per la quale possiamo benissimo usare i medesimi aggettivi, dando a brani dal taglio triste come “Crazy or High”, “Steppi Stone” o – soprattutto – “Yesterday, Today, Tomorrow” quel tocco di rabbia che fa di esse canzoni maledettamente rock.
Per quanto il primo ascolto sia stato stucchevole, in quelli successivi non ho potuto far altro che constatare come Zakk si trovi decisamente a proprio agio anche in questo tipo di rock più classico, che padroneggia alla perfezione senza mai scadere in banalità: la semicaustica e vagamente ’70 “Won’t find it here” mette semplicemente i brividi, mentre “She deserves a free ride” (qui fa un certo effetto sentire Zakk modulare la voce su registri delicati, sussurrati a tratti) e “Woman don’t cry” ci mostrano il lato più romantico del nostro eroe.
Vi sono comunque anche brani come “House of Doom” in cui possiamo ritrovare sonorità più massicce, ma le atmosfere dominanti non sono queste, e a tal proposito non ci resta che segnalare altri tre brani: “Layne”, che vede la partecipazione di Mike Inez degli Alice in Chains al basso e vuole proprio omaggiare il compianto Layne Staley, una versione da brivido del classico “A Whiter Shade of Pale” tutta per voce e pianoforte, e il brano più crepuscolare dell’intero “Hangover Music”, la semiacustica e agrodolce “Fear”, posta proprio come ultimo brano a chiudere il disco.
Il sesto tomo della saga Black Label Society segna un ritorno alla grande di Zakk Wylde, facendocelo apprezzare in quel suo lato musicale che ha tenuto nascosto per molti anni, lasciandolo intravedere solo in parte. Non è un album pesante, massiccio, impregnato di whisky ed altamente infiammabili come gli altri BLS né vuole esserlo: “Hangover Music” vuole essere un disco emozionante e anche un omaggio alle radici musicali di Zakk, fatte di southern e blues. Non credo affatto si tratti di una nuova, definitiva direzione musicale da parte sua, quanto di un momento di divagazione, un’occasione per fare qualcosa di diverso, e alla grande, motivo per cui posso solo consigliare caldamente l’ascolto di un album riuscito sotto ogni aspetto.