Grateful Dead – Live/Dead

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Da quando mi interesso di musica ho sentito definire psichedelici una quantità enorme di dischi. Di fatto la parola “psichedelia” suona molto bene, reca un forte fascino nel suono quando essa viene pronunciata, richiama alla mente immagini che hanno a che fare con gli squarci della fantasia e dell’estro, ed esercita spesso un ascendente vincente sull’ascoltatore dotato di buona immaginazione. Ma come spesso succede quando qualcosa diventa appannaggio di molti, il senso vero ed originario di quel qualcosa tende a svanire nella confusione. Non è sufficiente infatti limitarsi alla costruzione di effetti bizzarri quanto volete per poter parlare di psichedelia. Facciamo quindi un po’ d’ordine. La psichedelia, che fu un movimento artistico fiorito negli Stati Uniti nella seconda metà degli anni 60, conobbe molte sfumature e derivazioni, ma aveva come punto centrale d’incontro il portare avanti ideali di libertà, di amore, di libera espressione dell’animo, della coscenza, soprattutto della mente, raggiunte attraverso l’uso di certe nuove droghe a base di acido lisergico, che stimolavano una svincolata espressione artistica. Le sonorità che emergono dalle opere musicali del periodo sono quindi soltanto i mezzi creativi per il compimento finale dell’arte psichedelica. Coloro che incarnarono al meglio i significati ed i messaggi che si celavano dietro a tutto ciò furono senz’altro i Grateful Dead. Più che una band una big band, più che una big band degli inguaribili ricercatori. Ed il disco che racchiude al meglio tutti gli elementi artistici emersi durante la stagione psichedelica è senza dubbio “Live/Dead”, disco dal vivo registrato nei primi mesi del 1969 tra il Fillmore West e l’Avalon Ballroom di San Francisco, nonché l’apice artistico dei Grateful Dead e del suo indiscusso leader, Jerry Garcia (1942 – 1995), chitarrista sensazionale con uno stile inimitabile, nelle cui dita scorreva fluida e spontanea l’essenza dell’improvvisazione e della ricerca della dilatazione sonora. I Grateful Dead, sebbene autori di almeno 2 grandi dischi psichedelici in studio, furono soprattutto una dotatissima jam band devota al culto dell’acido lisergico. Pertanto la loro migliore faccia fu quella che erano soliti mostrare dal vivo, quasi sempre sotto gli effetti degli acidi, testati appunto per verificarne le potenzialità di espansione mentale durante esibizioni di per sé già fuori da qualsiasi schema tecnico-teorico universalmente conosciuto. Infatti tutto ciò che è possibile ascoltare su Live/Dead, è frutto di interminabili improvvisazioni derivate dalle visioni inquietanti che avevano luogo nelle menti di questi straordinari artisti. Angoscia, paure, libertà, euforia, tutto questo confluiva nella struttura spontanea delle vibranti escursioni spaziali dei Grateful Dead. Il blues è solo il punto di partenza, soprattutto quello di Garcia, ma da lì i Dead prendono subito distanze ragguardevoli, finendo per stravolgere il tutto con colori di una intensità misteriosamente abbaglianti. Ma com’è che si finisce per stravolgere un concetto, uno schema, una idea? Può essere solo ed esclusivamente opera dell’estro visionario di un chitarrista, sebbene un grande chitarrista? Ovviamente no: le esplorazioni sonore dei Grateful Dead erano merito anche del vigoroso basso di Phil Lesh, abile nel creare autentiche pulsazioni nel cosmo, degli scambi dei due batteristi Kreutzmann e Hart, precisi quanto estrosi, del prezioso lavoro, a volte impercettibile ma assai efficace, dell’altro chitarrista Bob Weir, e soprattutto degli affreschi organistici e tastieristici di Tom Constanten coadiuvato quando necessario dal bizzarro tuttofare Pigpen. Tutto questo preambolo per cercare di mettere in evidenza quanto l’universo live dei Dead fosse qualcosa di incredibilmente sterminato, in cui era pressochè impossibile immaginare la successiva nota, il successivo passaggio, o, più adeguatamente, il successivo viaggio. Un universo in cui il lasciarsi andare diventa un’ esperienza indescrivibile. Queste parole comunque descrivono a fatica le sensazioni che è possibile provare durante i 23 minuti di una dilatatissima “Dark Star”, autentico viaggio sonoro senza destinazioni conosciute, dove gli strumenti, dagli incredibili intrecci chitarristici di Garcia e Weir alle fumose tastiere di Constantinen, sembrano muoversi, danzare, volare, perdersi, per poi riunirsi nuovamente. In altre parole “Dark Star” è l’apoteosi dell’esperienza lisergica totale, del trip cosmico, il trionfo dell’improvvisazione, il vero inno psichedelico, altro che “Somebody to love”, che al confronto sembra poco più di una nenia radiofonica. In quei 23 straordinari minuti si riassumono inconsapevolmente tutti i temi della stagione in cui essi sono stati scritti e sconvolti a più riprese. Trovano spazio versioni altrettanto estese di “St Stephen” – dal bellissimo “Aoxomoxoa” – in cui, tra le altre meraviglie a cui è possibile assistere, il basso di Lesh sembra “viaggiare” in modo circolare arrivando direttamente a sollecitare i neuroni, e “The Eleven”, terreno fertile per le spiccate doti d’improvvisazione di questi musicisti. Momenti di straordinario senso drammatico si susseguono nella versione di “Death don’t have no mercy”, in cui l’organo ricama opportunamente creando sensazioni al limite dell’immaginazione. E cosa dire di “Feedback”, un crescendo sterminato ed inaudito di suoni tra i più inquietanti mai ascoltati nel rock, ad opera di chitarre, tastiere, percussioni, per un’orgia psichedelica di rara efficacia.
Non posso chiedere di più alle mie parole, è impossibile cercare di mettere a fuoco tutte le sfumature che vivono in questo live. Vi basti sapere che “Live/Dead” è unanimamente riconosciuto come uno dei cinque live album più importanti della storia del rock, figlio di una attitudine artistica spontanea e vera, testimonianza esemplare di un’ epoca e di una concezione artistico-musicale definitivamente perduta e per questo irripetibile.
Da lì in poi furono altri Grateful Dead, pertanto questo disco è da considerarsi come il suggello dell’ arte psichedelica, fonte d’ispirazione infinita anche per le grandi jam band di oggi come i Phish o i Gov’t Mule. Un disco tutto da vivere, che non vi farà essere più gli stessi dopo il primo ascolto; una di quelle poche opere conosciute in grado di cambiare la linea dell’orizzonte, rendendola lontana, lontanissima e mai più visibile. Indimenticabile.